NOI, AVVERSI AI RISCHI (SBAGLIATI)
Pandemia e non solo Siamo prudenti davanti ai vaccini, ma non ci assicuriamo contro incendi o rischio sismico e pochi pensano alla non autosufficienza della vecchiaia
Ripresa, non senza danni, la campagna vaccinale, ci si interroga in generale sulla valutazione dei rischi e sui limiti del principio di precauzione. Non solo nella lotta al virus. Paul Krugman ha scritto per il New York Times un articolo nel quale si chiede che cosa debba imparare l’America dai ritardi europei. E punta il dito sulla eccessiva avversione ai rischi (sbagliati) che ha accompagnato la stipula dei contratti sui vaccini da parte della Commissione presieduta da Ursula von der Leyen. Ovvero la preoccupazione di non essere accusati di fare troppe concessioni alle case farmaceutiche, di non apparire deboli nei confronti del mondo privato, di non pagare più del dovuto per le forniture. In estrema sintesi, il premio Nobel dell’Economia accusa l’Unione europea di temere troppo le conseguenze, soprattutto politiche e giuridiche, della propria azione. E, quindi, di mettere in secondo piano la necessità di ottenere subito un risultato concreto, di contrastare i rischi veri, quelli della salute. Costi quel che costi. L’esatto opposto di quello che stanno facendo alcuni Paesi anglosassoni che hanno scommesso pragmaticamente di più, e al buio, sulla ricerca e sono molto avanti nelle vaccinazioni. Regno Unito e Usa stanno somministrando a un ritmo tre volte superiore a Francia e Germania, ricorda Krugman, che pur riconosce, grazie ai sistemi sanitari, un’aspettativa di vita degli europei superiore a quella americana.
In Israele, in questi giorni, la vita è ripresa normalmente. Gerusalemme ha pagato ogni dose del vaccino molto più di quanto abbiano versato gli europei, importandolo poi dagli stabilimenti dell’Unione. Oggi invidiamo quei cittadini di Tel Aviv che festeggiano nei locali la fine delle restrizioni e ballano addirittura sui tavoli. Bravi. Ma dobbiamo domandarci che cosa sarebbe accaduto se l’Unione europea, come Israele, oltre a pagare di più, avesse venduto tutti i nostri dati personali alle aziende di Big Pharma. Nessuno dei governi europei — legge permettendo — si sarebbe preso una simile responsabilità. Dare la colpa all’Europa però è ancora una volta fuorviante e strumentale. La Commissione sarà stata certamente un negoziatore timido e per certi versi sprovveduto — ancora ieri Ursula von der Leyen ha sollecitato il rispetto degli impegni — ma ha trattato su mandato dei governi nazionali, entro i limiti da loro posti e precostituiti in trattative già avviate. E meno male che vi è stata una centralizzazione degli acquisti. Senza i veti nazionali, notava l’altro giorno il neosegretario del Pd, Enrico Letta, avremmo già l’Europa della salute, che molti pensano ci sia già. Il blocco temporaneo delle somministrazioni non è arrivato dall’Ema, l’Autorità europea dei farmaci, bensì dagli Stati nazionali, tra i quali purtroppo anche l’Italia del governo Draghi.
La prudenza risponde a un principio di precauzione che, a parità di conoscenze, viene declinato sulla base delle culture nazionali. Ma nelle scelte di alcuni governi — persino nella Germania di Angela Merkel che ha una formazione scientifica — vi sono anche preoccupazioni di altra natura, legate alle dinamiche del consenso, persino alle non piccole platee di no vax. Quello che è accaduto nei giorni scorsi ha avuto però un impatto non trascurabile sulla fiducia dei cittadini nell’efficacia dei vaccini, soprattutto AstraZeneca. Adesso bisognerà recuperare. In fretta. E ci chiediamo inoltre se non sia aumentata così nei cittadini europei l’avversione al rischio in generale, ingrossando timori ingiustificati. Gli italiani — secondo le rilevazioni di Nando Pagnoncelli ieri sul Corriere — mostrano di avere un diffuso buon senso. Solo uno su dieci sembrerebbe rinunciare. Le probabilità di un evento grave, per chi riceve un vaccino, è nell’ordine del milionesimo. La probabilità di avere un incidente mortale sulla strada in un anno è pari allo 0,053 per mille; 53 casi per milione. Quella di incorrere in un sinistro con un non assicurato (sono 2,6 milioni) è del 3 per mille. Se dunque gli italiani fossero veramente avversi al rischio, come mostrano di esserlo i più indecisi sui vaccini, dovrebbero risultare, tra gli europei, i più inclini a stipulare delle polizze, a tutelarsi. In realtà non è così. Siamo agli ultimi posti in Europa. Un solo esempio: il 78 per cento delle abitazioni italiane è in aree a rischio sismico, ma solo il 4,8 per cento è assicurato. Forse
In Italia Per il gioco d’azzardo spendiamo ogni anno sei volte più di quanto si investa in polizze assicurative
questo avviene per un eccesso di confidenza («A me non può capitare») o per la certezza, o speranza, che lo Stato possa provvedere a tutto e alla fine una soluzione ci sia sempre. Se vogliamo veramente proteggere i nostri anziani, così duramente colpiti dalla pandemia, non dovrebbe sfuggirci un dato. Superati gli 82 anni, il rischio della non autosufficienza è di un soggetto su tre. Pensare che la Sanità pubblica possa anche in futuro, visto l’invecchiamento progressivo della popolazione, provvedere a tutto è una pia illusione. In Germania l’assicurazione per la non autosufficienza è obbligatoria. La spesa sanitaria pubblica era, nel 2019, di 115 miliardi; quella privata di 36 miliardi, al 90 per cento sulle spalle delle famiglie, molte delle quali in seria difficoltà a sostenerla. Un assistente familiare costa in media all’anno 15 mila 800 euro, più vitto e alloggio.
L’avversione al rischio riduce il tasso di imprenditorialità (in Italia tra i giovani il più basso nell’Ocse, l’organizzazione dei Paesi sviluppati) ma orienta anche le scelte professionali. Frena, per esempio, come nota il rettore dell’Università degli Studi di Milano, Elio Franzini, le iscrizioni alle scuole di specialità per i chirurghi (troppe cause, forte incertezza legale).
Al contrario, una parte ampia della popolazione, forse anche tra quella che ha paure infondate sui vaccini, i pericoli non li vede nemmeno. Non si assicura e magari si affida di più alla fortuna, al fato. Amando il rischio non avversandolo. Per il gioco spendiamo ogni anno sei volte più di quanto si investa in polizze assicurative. E abbiamo detto tutto.