«Un gran fifone, ma scrivo thriller per fare paura»
Lo scrittore di thriller: all’oratorio spaventavo gli altri bimbi
«S ono un fifone» dice lo scrittore Donato Carrisi «ma scrivo thriller per fare paura».
Donato Carrisi, che paure ha uno che ha venduto tre milioni di thriller?
«Sono terrorizzato dalle bambole. Da bambino, i miei le mettevano dove non volevano che mi avvicinassi, prese di corrente, fuochi. In tempi più recenti, da un giorno all’altro, ho avuto paura dell’aereo. Faccio un corso di Alitalia contro la fobia del volo e mi portano in una carlinga col resto della classe. L’hostess mi assegna il posto 3A. Vado e ci trovo seduta una bambola. Ho iniziato a urlare come un pazzo».
Almeno, la paura di volare le è passata?
«Solo grazie a un farmaco consigliato da Carlo Verdone».
Che cosa le hanno fatto le bambole?
«Quando mamma era incinta, voleva una femmina. Papà, per buono augurio, le regalò una bambola, che rimase sempre nella mia stanza di bambino».
Se la sua vita fosse un thriller, da dove comincerebbe a raccontarla?
«Direi che ero un bimbo talmente terribile che, per tenermi buono, non bastavano le normali paure dell’uomo nero e del lupo cattivo e i miei dovevano inventare mostri appositi. La nonna mi raccontava la fiaba di una donna che aveva fatto a pezzi il marito e l’aveva messo nel freezer. E che poi si metteva vicino al camino e, dal camino, sentiva uscire una voce che diceva: Maria, Maria, ridammi il braccio mio...».
Il braccio mutilato e la voce che suggerisce o tormenta sono classici dei suoi romanzi.
«Le voci tornavano sempre nelle storie di terrore che raccontavo da bambino ai compagni dell’oratorio. Quando la suora scoprì che li atterrivo, mi disse: tu hai un angelo custode cattivo. Questo, invece di spaventarmi, mi illuminò. Pensai: posso fare di tutto e dare la colpa all’angelo. Mi divertiva lo stupore davanti al colpo di scena. Siamo tutti sempre alla ricerca del brivido. Io anche nella vita reale».
In che senso «nella vita reale»?
«Sono un fifone, ma m’infilo sempre in avventure improbabili, mi prendo rischi assurdi. Una notte, per provare una scena del “Suggeritore”, sono entrato col telefono scarico in un orfanotrofio abbandonato. Una cosa così è da horror di serie B: solo se la vivi di persona puoi trovare qualcosa mai raccontato».
Il suo alter ego è dunque l’agente Mila Vasquez, protagonista di una trilogia oltre che della suddetta scena , e che come lei ha paura, ma non resiste al richiamo del pericolo?
«Il punto è assecondare il proprio lato oscuro per conoscerlo meglio e poterlo controllare, molti si limitano a ignorarlo o rimuoverlo. Mi spaventano quelli che dicono: sono una brava persona. È la frase preferita dai serial killer».
Che cos’è il male?
«Qualcosa che ti sorprende, appunto. Per documentarmi, ho intervistato tanti che l’hanno incontrato ed erano sempre stupiti, anche se avevano commesso omicidi premeditati».
Ha paura quando fa i sopralluoghi o incontra assassini?
«Io mi spavento anche quando scrivo. Per anni, di notte, ho svegliato un amico, per distrarmi. Ora, sveglio Sara, la mia compagna. La chiamo anche di giorno. Chiedo: quando torni? E lei: hai paura? Mi sgama sempre».
Quale romanzo l’ha inquietata di più?
«“La casa delle voci”. Volevo una storia senza sangue e senza mostro, un puro thriller psicologico. Per scriverlo, ho incontrato “l’addormentatore di bambini” e mi sono fatto ipnotizzare. Ero scettico. Erano le 15,30 di un pomeriggio d’estate, io steso sul lettino, certo di essere sveglio, ma poi ho aperto gli occhi ed era buio: erano passate tre ore, non 20 minuti».
E, sotto ipnosi, ha avuto rivelazioni?
«Qualcosa sulle origini della mia claustrofobia. Sono claustrofobico al punto che non riesco neanche a frequentare gli speleologi».
Eppure, da regista, ha diretto «L’Uomo del Labirinto», tutto girato in cunicoli di roccia.
«Erano ricostruiti, finti, a Cinecittà, ma tutte le volte che iniziavo a girare, avevo un groppo sullo sterno. Per far provare paura, devi conoscere la paura. Nessuno comprerebbe una bistecca da un macellaio vegetariano».
Perché le sue vittime sono quasi sempre bambini o ragazzini?
«Perché, per spaventare il lettore, devi rievocare la paura così com’era quando l’ha incontrata per la prima volta».
Davvero per un bimbo «la famiglia è il posto più sicuro della Terra. O il più pericoloso»?
«Dietro ogni assassinio, c’è sempre un evento familiare che lo innesca, non necessariamente drammatico».
Da padre di due figli, lei come sorveglia che il male non s’inneschi?
«Il passo principale è lasciare la rabbia fuori di casa».
Lei che cosa voleva fare da grande?
«Quello che faccio oggi: raccontare storie».
Però, si è laureato in Giurisprudenza.
«Perché credo nell’università e perché tutti i Donato della mia famiglia sono avvocati. Però non mi sono iscritto all’albo perché, il giorno prima dell’esame, mi chiamò Achille Manzotti per fare lo sceneggiatore. Così lasciai Martina Franca e andai a Roma. Avevo 26 anni».
Lo sceneggiatore così, dal nulla?
«Ero un pazzo, continuavo a scrivere copioni, soggetti. Avevo visto una fiction , “Un prete fra noi”, e mi ero detto: ma la posso scrivere anche io! Buttai giù il seguito, lo mandai alla produzione e me lo fecero fare».
A 19 anni, aveva fondato una compagnia teatrale, voleva diventare anche attore?
«Resto un po’ attore dentro. Sono un professionista dello scherzo telefonico».
Me ne dica uno.
«Con un’amica sensibile al tema dell’infanzia, mi sono finto una bimba che aveva sbagliato numero. La bimba dice: sono sola con nonna che si è addormentata e non si sveglia. L’amica dice: chiama qualcuno, i vicini. E lei: non arrivo alla porta di casa. L’amica: da dove chiami? Non lo so. Come si chiama la tua mamma? La mia mamma è morta».
Scelse lei la tesi di laurea su Luigi Chiatti, il mostro di Foligno?
«Me la chiese il mio prof. In Italia, occuparsi di serial killer era quasi un tabù, per cui, alla tesi non fu riconosciuta piena dignità: presi 109 e, per scriverla, dovetti pure dare l’esame di medicina legale e assistere a un’autopsia».
Come se la cavò con l’autopsia?
«Sono svenuto, ma il peggio fu rinvenire sul tavolo autoptico accanto al cadavere».
Però, essersi occupato di un serial killer le è tornato utile.
«Alcune storie dell’infanzia del serial killer del mio ultimo libro, “Io sono l’abisso”, di cui sto preparando il film, sono ispirate a Chiatti. Quando scrivo, mischio fantasia e casi veri. Ogni giorno, passo due o tre ore a cercare sui giornali cronache di sparizioni e delitti. Attacco al muro post it e articoli. Poi, se trovo una cosa interessante, parto e vado a sentirla dai protagonisti. “La ragazza della nebbia” nasce dai casi di Yara Gambirasio e di Sarah Scazzi».
Com’è stato dirigere Toni Servillo e Jean Reno in quel film?
«Sul set c’era una tensione pazzesca: con due attori di quella caratura non sai mai cosa può succedere, possono sfidarsi a chi è più bravo. Il primo giorno, Reno sbaglia una battuta e inizia a urlare come un ossesso. Servillo gira verso di me e mi fa: Dona’ mi sta venendo un infarto. I due avevano capito la tensione e hanno trovato il modo di stemperarla».
Come è andata con Dustin Hoffman ne «L’uomo del labirinto»?
«Tempo prima, avevo portato un soggetto a un produttore italiano che mi aveva risposto: non si può fare, ci vorrebbe Dustin Hoffman. Quando anni dopo incontro Hoffman, a un appuntamento pieno di agenti e assistenti, glielo racconto e tutti sbiancano, tranne lui, che mi dice: now, you can call me Destino. Ora, puoi chiamarmi Destino. Per mesi, sono andato da lui a Londra a discutere del personaggio. Avevo le ciabatte a casa sua».
Quanto soffre a ridurre un libro in un film?
«Zero: io scrivo prima la sceneggiatura».
Quindi esiste anche quella del primo romanzo, «Il suggeritore»?
«Me l’hanno chiesta anche a Hollywood, ma voglio girarla io ed è molto costosa».
A gennaio 2009, i giornali titolavano: «Il thriller più atteso al mondo è di un italiano sconosciuto». Come era possibile?
«Prima che “Il suggeritore”uscisse, il mio agente aveva venduto i diritti a otto Paesi, poi diventati più di 50. Prima, avevo scritto due romanzi che, per fortuna, non aveva voluto nessuno. Fra il secondo e il terzo ci avevo messo sudore, fatica, esperienza: avevo scritto tanto per le fiction di Pietro Valsecchi. Da anni, avevo in testa il film sul suggeritore, ma nessuno voleva produrlo. Un giorno, ho mollato Roma e sono tornato in Puglia per farne un libro. I miei genitori mi davano del pazzo. Feci una lista di agenti editoriali, partendo dal più potente d’Europa: Luigi Bernabò. Gli scrivo una mail pensando: mi dirà di no. Dopo due ore, chiama e dice: se il romanzo corrisponde alla mail, lavoreremo insieme. Gli mando il libro e iniziano le aste fra editori. Lui racconta che non aveva mai visto accadere una cosa così».
Le donne sono attratte o temono il lato oscuro di uno scrittore di thriller?
«Quando ero single, raccontare storie di mistero funzionava molto con le donne, ma l’ho usato poco: sono da grandi storie d’amore. Con la prima moglie, ho avuto un figlio che ha nove anni. Con Sara, uno che ha nove mesi. Di base, considero noi uomini esseri inferiori. Sono cresciuto in una famiglia matriarcale. Tutti i maschi Carrisi sono sopravvissuti grazie alle donne che li hanno scelti. Io pure».
Lei sa riconoscere una persona malvagia?
«Magari».
Il consiglio di Verdone
La paura di volare mi è passata solo grazie a un farmaco che mi ha segnalato Carlo Verdone. Una volta sono svenuto assistendo a un’autopsia
Il fascino del mistero
Quando ero single raccontare storie di mistero funzionava molto con le donne, ma l’ho usato poco: io sono per le grandi storie d’amore