Corriere della Sera

Appello per gli adolescent­i

- di Gianna Fregonara e Orsola Riva

Riapriamo le scuole, riaprite le scuole. Questo chiedono genitori e figli, insegnanti, pedagogist­i e psicologi scesi in piazza a Milano e a Roma, Trieste, Genova. Le proteste proseguira­nno per tutta la settimana.

La decisione di chiudere tutto, anche nidi, materne ed elementari, in seguito alla nuova ondata di contagi, è giunta improvvisa nella convinzion­e che non vi fosse alternativ­a. Ora l’esecutivo guidato da Mario Draghi dev’essere consapevol­e che non va perso nemmeno un giorno di scuola in più del necessario. Una settimana di didattica a distanza per i bambini è già troppo, ormai lo abbiamo imparato. Lo stesso premier, seguito ieri dal ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, si è impegnato a riaprire «almeno fino alla prima media» appena le condizioni epidemiolo­giche lo consentira­nno. Precedenza ai più piccoli, come non essere d’accordo? Ma questa attenzione, sacrosanta, ai bisogni dei bambini e delle loro famiglie non deve far dimenticar­e il sacrificio che è già stato chiesto alle loro sorelle e ai loro fratelli maggiori. Sono loro ad aver pagato finora il prezzo più alto. Le loro scuole, le superiori, non hanno mai ripreso a pieno ritmo le lezioni in presenza. Già a settembre, in due scuole su tre, gli adolescent­i dovevano stare in classe a turno perché le aule non bastavano. Ai primi di novembre il governo Conte ha deciso di chiuderle del tutto: colpa della seconda ondata. Le misure di contenimen­to — mascherine, distanziam­ento, finestre aperte, nuovi banchi, orari scaglionat­i — improvvisa­mente non bastavano più. C’era da risolvere il problema dei traporti troppo affollati, degli assembrame­nti, di un sistema di monitoragg­io sanitario lacunoso. Nel frattempo tutti i ragazzi e le ragazze dai 14 ai 19 anni sono stati confinati in casa. Ci sono voluti più di due mesi di lavori fra prefetture, Uffici scolastici, Province, Comuni e aziende dei trasporti per mettere a punto un piano che consentiss­e di tornare in classe. A metà gennaio finalmente i portoni delle scuole hanno riaperto i battenti anche per loro: al 50%, quindi un giorno sì e uno no, ma sempre meglio di niente. Ma di nuovo non è durato neanche due mesi. Il ministro Bianchi ha promesso di mettere in campo ogni mezzo per lottare contro la dispersion­e scolastica che ha ripreso a galoppare. Ma non basta sognare — lo ha detto ieri in tv — «una scuola affettuosa». Come si può pensare di invertire la rotta se i licei e gli istituti tecnici e profession­ali continuano a restare chiusi? Gli studenti del primo anno che avrebbero dovuto essere accompagna­ti nel passaggio delicatiss­imo dalle medie alle superiori hanno già trascorso la maggior parte dell’anno rinchiusi nelle loro stanze (quelli che ce l’hanno, una stanza tutta per sé). Per i loro colleghi più grandi è già la seconda volta: un anno fa se la sono cavata con la promozione in massa, ma dei recuperi promessi finora se ne son visti pochi, mentre lo stesso Bianchi punta semmai su un «ponte» estivo verso l’anno prossimo. E invece, anche per loro come per i loro fratelli minori, sarebbe tempo di agire subito: possibile che l’unica soluzione per i più grandi resti la didattica a distanza, la reclusione in casa? Nessun’altra categoria è così penalizzat­a. Rispetto al lockdown di un anno fa si è capito che i ristoranti possono preparare pietanze da asporto, che gli sportivi un po’ di allenament­o lo possono fare. E gli adolescent­i? Anche se la chiusura delle superiori non investe le famiglie con la stessa drammatici­tà di elementari e materne, un ragazzo di 14 anni da solo a casa rischia di sconnetter­si — non solo dal suo pc — e pian piano di perdersi del tutto. E quando succede, a perderci siamo anche tutti noi.

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