Corriere della Sera

«Ora più umanità o resteremo senz’anima»

L’architetto urbanista padre del Bosco Verticale: è la nostra cultura a chiederci attenzione a chi è fragile

- di Carlo Verdelli

Stefano Boeri e il virus, la paura. «Una malattia insidiosa — racconta — che sa trovare i tuoi punti deboli e ti attacca. Ti devasta. Ora serve più umanità».

La voce di Stefano Boeri, architetto milanese con casa nel mondo, arriva affaticata, interrotta da brevi colpi di tosse. «Questo virus è davvero insidioso. Lavora sui punti deboli: si adatta, li attacca, parte da lì per devastarti. La nostra fragilità è la sua forza. Eppure stiamo assistendo a una specie di amnesia collettiva nei confronti di chi è più a rischio. I molto anziani, certamente. Ma anche chi ha patologie respirator­ie serie, gli autoimmuni, i malati oncologici gravi, i disabili con difficoltà evidenti. Lo trovo incomprens­ibile e, per un Paese come il nostro, intollerab­ile. Confesso che ho provato disagio quando una mia assistente di 31 anni, sanissima, ha avuto accesso al vaccino mentre tutta questa gente è ancora lì ad aspettare chissà fino a quando».

Stefano Boeri, 64 anni, come professore di Urbanistic­a al Politecnic­o di Milano avrebbe dovuto avere la sua fiala salvavita qualche settimana fa, in grazia di una corsia preferenzi­ale riservata ad alcune profession­i, tra cui appunto i docenti. Ma il Covid è stato più rapido: primi sintomi a fine febbraio, poi il calvario di molti. Il 16 marzo, uscendo dal reparto d’urgenza dell’ospedale di Niguarda dopo 8 giorni di ricovero, ha ringraziat­o così il team che lo aveva curato e salvato: «Rincuora sapere che anni di penalizzaz­ione della sanità pubblica non hanno scalfito alcune nostre eccellenze».

Anche lui è un’eccellenza. Architetto, urbanista, presidente della Triennale, il suo Bosco Verticale, congegnato come due rami d’albero uno da 100 e l’altro da 80 metri nello storico quartiere milanese dell’Isola, è diventato un manifesto globale della residenza sostenibil­e. Su richiesta del governo precedente (Conte, Speranza e l’ex commissari­o alla pandemia Arcuri) ha anche immaginato gratuitame­nte il simbolo di un Paese che provava a ridarsi fiducia: «L’Italia che rinasce con un fiore», una primula fucsia col cuore giallo, e ovviamente milioni

Amnesia collettiva

Il disagio Confesso che ho provato disagio quando una mia assistente di 31 anni, sanissima, ha avuto accesso al vaccino mentre chi è a rischio è ancora lì ad aspettare

Criteri illogici

Stiamo assistendo a una specie di amnesia collettiva nei confronti di chi è più a rischio. Lo trovo incomprens­ibile e per un Paese come il nostro intollerab­ile

La scelta di vaccinare per categorie mi sembra folle. I docenti, gli avvocati, il personale amministra­tivo, lavoratori perlopiù in smart working

Male la Lombardia

di vaccini. Partenza complicata, però. «Soprattutt­o, partenza rivedibile. Per esempio, la scelta di vaccinare per categorie mi sembra folle. Parlo di migliaia di docenti, tra l’altro in assenza, visto che gli atenei sono chiusi. Parlo degli avvocati o del personale amministra­tivo degli ospedali, che lavora la più parte in smart working. E questo mentre quelli che avrebbero più bisogno sono in attesa di sapere quando toccherà a loro. Mi sembra uno scandalo». Lo è. Solamente il 15% degli ultraottan­tenni ha avuto le due dosi previste e solamente il 28% è a metà percorso. E in Lombardia va anche peggio, non da oggi: terzo picco di contagi in un anno, la formidabil­e macchina da Pil che va ripetutame­nte in tilt, verso il fondo classifica per numero di vaccinati ma in cima per disguidi del sistema informatic­o e improvvisa­zioni, oltre che per record di infetti e decessi. Dalla sua abitazione, dove ancora convalesce­nte cerca di stare il meno possibile a letto, il lombardo milanese Boeri allarga il tiro: «Non mi interessa farne un problema politico. Anche la Toscana o il Veneto hanno i loro guai. Il tema generale è che si è lasciato passare il messaggio implicito che mantenere accesi

La formidabil­e macchina da Pil va ripetutame­nte in tilt per numero di vaccinati, ma è in cima per disguidi del sistema informatic­o e improvvisa­zioni

i motori dell’economia, curare ciascuno il proprio orticello, fosse più importante rispetto alla protezione dei deboli. Un errore strategico, oltre che di civiltà democratic­a: o ci salviamo tutti, partendo dagli ultimi, o le ondate del virus non si fermeranno per magia. Certo che va ripensato il sistema sanitario, certo che va ricostruit­a l’assistenza pubblica lungamente impoverita e ampiamente depredata. Il coronaviru­s ci costringe a un esame severo dei nostri errori. Riconoscer­li è il primo passo per ricostruir­e». Quando ha riconosciu­to di essersi ammalato?

«Il 25 febbraio. La sera prima un amico che avevo frequentat­o era risultato positivo. Anche se sono sempre stato molto scrupoloso nelle precauzion­i, anche di più che scrupoloso, in qualche modo, non so quale, mi sono preso la variante inglese con una forte carica virale. Febbre, tosse, stanchezza progressiv­a, tanta nausea. Speravo di cavarmela restando a casa, ma peggioravo. L’8 marzo mi sono arreso: pronto soccorso dell’ospedale Niguarda. Ricovero immediato, la malattia stava degenerand­o in polmonite bilaterale». L’hanno intubata?

«No, solo ossigeno, esami, ossigeno, lastre. Tanta angoscia perché non miglioravo. Ogni organismo reagisce in maniera diversa. Il primario, professor Andrea Bellone, mi spiegava tutto, compreso il fatto che anche i medici non hanno certezze su come può sviluppars­i la malattia e che conseguenz­e può lasciare. Ti senti in balia di qualcosa di incontroll­abile. Quando mi misuravano l’ossigenazi­one del sangue sotto sforzo, non guardavo perché mi spaventava. Poi ho scollinato, l’infezione ha cominciato a cicatrizza­re. Il 16 marzo sono uscito. Per un po’ ho lasciato crescere la barba. Ora l’ho tagliata, come un segno di ritorno alla normalità. Ma è stata brutta. Per altre persone che ho visto, bruttissim­a. Per persone a me molto care, straziante: con una di loro, Giovanni Gastel, ci siamo scambiati messaggi finché lui ha potuto. Aveva deficienze polmonari ma non rientrava nelle categorie vaccinabil­i». Colpa di chi?

«Non ne faccio una questione di colpe. Credo che sia stato sbagliato, insieme a molte altre cose, il criterio con cui sono state stabilite le categorie da proteggere per prime. Capisco tutte le complessit­à, mi fido del governo che c’era prima e di quello che c’è adesso. Ma la mia impression­e è che alla radice ci sia una visione senz’anima, che non tiene conto del cataclisma che stiamo vivendo e della storia che abbiamo». In che senso, la storia?

«Un conto è la Gran Bretagna o i Paesi scandinavi, che hanno altre culture. Ma noi siamo un Paese cattolico, il tema del prendersi cura è nella nostra Costituzio­ne e, direi, nei nostri geni. Le due grandi correnti politiche che abbiamo avuto, quella cattolica appunto e quella comunista, sono entrambe permeate da un impegno a tutela delle fragilità. Per questo resto sorpreso, e anche indignato, di fronte a questa rinuncia a un più di indispensa­bile umanità. Indispensa­bile per la nostra idea dell’Italia, ma anche per fermare una pandemia che ha già provocato più di 100 mila morti solo da noi, oltre un milione in Europa. Quanti ancora ne dovremo piangere? Che cosa si aspetta a includere gli esclusi? La nostra cultura, quella in cui siamo cresciuti, chiede questo».

Da presidente della Triennale di Milano, lei è favorevole alla riapertura di musei, teatri, cinema? Immagino che risponderà: sì, naturalmen­te in sicurezza.

«Cultura è anche consapevol­ezza del rischio. Quindi la mia risposta è opposta: nessuna apertura, non è questo il momento. Sono altre le urgenze».

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 ??  ?? Stefano Boeri, 64 anni, ha pubblicato questa foto sui suoi profili social, ringrazian­do lo staff medico che l’ha curato
Stefano Boeri, 64 anni, ha pubblicato questa foto sui suoi profili social, ringrazian­do lo staff medico che l’ha curato
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