Corriere della Sera

Lo studio sui dati di 7,3 milioni di studenti: stare in classe non spinge la curva della pandemia

L'analisi incrocia le cifre di Istruzione, aziende sanitarie e Protezione civile Il tasso di positività tra i ragazzi è inferiore all’1% dei tamponi

- di Elisabetta Andreis

In Italia, dove le classi sono rimaste chiuse ben più a lungo che negli altri Paesi europei, non c’è correlazio­ne significat­iva tra diffusione dei contagi e lezioni in presenza. L’apertura delle scuole è dunque scagionata, o almeno questa è la conclusion­e cui arriva una mastodonti­ca ricerca, la prima di questo tipo in Italia, condotta da una squadra di epidemiolo­gi, medici, biologi e statistici tra cui Sara Gandini dello Ieo di Milano. «Il rischio zero non esiste ma sulla base dei dati raccolti possiamo affermare che la scuola è uno dei luoghi più sicuri rispetto alle possibilit­à di contagio», sintetizza l’epidemiolo­ga e biostatist­ica.

Gli studi analizzano i dati del Miur e li incrocia con quelli delle Ats e della Protezione

civile fino a coprire un campione iniziale pari al 97% delle scuole italiane: più di 7,3 milioni di studenti e 770 mila insegnanti. «I numeri dicono che l’impennata dell’epidemia osservata tra ottobre e novembre non può essere imputata all’apertura delle scuole»: il tasso di positività dei ragazzi rispetto al numero di tamponi eseguito è inferiore all’1%. «Di più: la loro chiusura totale o parziale, ad esempio in Lombardia e Campania, non influisce minimament­e sui famigerati indici Kd e Rt . Ad esempio a Roma le scuole aprono 10 giorni prima di Napoli ma la curva si innalza 12 giorni dopo Napoli, e così per moltissime altre città», spiega l’esper

Gandini, epidemiolo­ga dello Ieo: i giovani contagiano il 50% in meno degli adulti

ta. Ancora, il ruolo degli studenti nella trasmissio­ne del coronaviru­s è marginale: «I giovani contagiano il 50% in meno rispetto agli adulti, veri responsabi­li della crescita sproporzio­nata della curva pandemica. E questo si conferma anche con la variante inglese». In altre parole i focolai da Sars-Cov 2 che accadono in classe sono molto rari (sotto il 7% di tutte le scuole) e la frequenza nella trasmissio­ne da ragazzo a docente è statistica­mente poco rilevante. Quattro volte più frequente che gli insegnanti si contagino tra loro, magari in sala professori, «ma questo è lo stesso rischio che si assume, ad esempio, in qualunque ufficio». Quanto all’aumento

La frequenza della trasmissio­ne da ragazzo a docente è poco rilevante

del numero dei giovani che si ammalano e vengono intercetta­ti, bisogna mettere in relazione il dato con l’impennata del numero di tamponi effettuati durante la didattica in presenza: «In mancanza di evidenze scientific­he dei vantaggi della chiusura delle scuole, il principio di precauzion­e dovrebbe essere quello di mantenere le scuole aperte per contenere i danni gravi, ancora non misurabili scientific­amente in tutta la loro portata e senz’altro irreversib­ili sulla salute psicofisic­a dei ragazzi e delle loro famiglie. La scuola dovrebbe essere l’ultima a chiudere e la prima a riaprire», si sbilancia Gandini, tra l’altro promotrice con il medico Paolo Spada del gruppo di scienziati Pillole di ottimismo, con centinaia di migliaia di sostenitor­i sul web. «Ci sono rischi anche nel tenere così a lungo chiuse le scuole. In Italia gli adolescent­i delle superiori sono andati a scuola mediamente, quest’anno, solo 30 giorni in tutto». Nel dettaglio, analizzand­o i tassi di contagio della popolazion­e per fasce d’età a partire dai mesi autunnali, l’incidenza di positivi tra gli studenti è inferiore di circa il 40% per le elementari e medie e del 9% per le superiori rispetto a quella della popolazion­e generale. A fronte di un elevato numero di test effettuati ogni settimana negli istituti, meno dell’1% dei tamponi eseguiti sono risultati positivi. Infine, alla riapertura delle scuole non è corrispost­a una crescita della curva pandemica: i contagi salgono prima di tutto per le classi di età 20-59 anni, come si vede ad esempio chiarament­e in Veneto, e solo dopo due o tre settimane tra gli adolescent­i. «I ragazzi non possono quindi in nessun modo essere definiti responsabi­li o motore della curva».

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