LO STATO RIPRENDA LE SUE MANSIONI
La sempre più estesa insofferenza verso le restrizioni decretate per arginare la diffusione del Covid-19 e i tutt’altro che rari casi di deliberata violazione delle stesse, sono fenomeni per lo più determinati dalla percezione che a distanza di oltre un anno dall’inizio della pandemia, non siano intervenuti cambiamenti significativi per arginarla.
Si tratta di argomentazioni che sarebbe semplicistico derubricare come astratte poiché oltre ad alimentare maggiore scetticismo e minore precauzione e a simboleggiare l’ostentato disinteresse verso l’ultimo rapporto Istat che attesta come nel 2020 vi sono stati più morti in assoluto dal Dopoguerra, segnano l’inizio di un processo dialettico nel quale i due sostantivi (tempo e cambiamento) saranno decisivi per il nostro futuro.
È evidente che siamo ormai giunti ad un punto di svolta cruciale nel quale tutti, ma in primo luogo i governanti, sono chiamati a realizzare in un tempo breve cambiamenti epocali: sconfiggere la pandemia e risolvere le problematiche economiche causate dalla stessa. Anche se di maggiore gravità, la prima delle due questioni è di più agevolmente risoluzione. La documentata efficacia dei vaccini già somministrati (del 95%); i primi progressi in campo terapeutico; una più efficace attuazione di misure di sanità pubblica e i benefici della stagionalità, lasciano ben sperare che in un tempo contenuto si potrà giungere alla fine epidemiologica della pandemia.
Diverse e più composite sono le problematiche economiche la cui definizione implica, in primo luogo, il corretto e fruttuoso utilizzo dei fondi europei che ci sono stati destinati.
È la prima volta nella storia europea che accanto al quadro finanziario pluriennale, stanziato con proventi degli Stati membri (QFP), si va ad aggiungere il Next Generation EU, meglio noto come «Recovery Fund», vale a dire risorse che l’Unione Europea reperirà attraverso prestiti dai mercati finanziari internazionali contraendo un debito europeo comune.
Ma il denaro non basta. Le esperienze del passato insegnano che le crisi, di qualsiasi natura esse siano, sono comunque caratterizzate da una pluralità di sfaccettature che renderebbero riduttiva la loro sussunzione nel solo alveo economico. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, sarebbe a dir poco imprudente non considerare la sua cronica incapacità nell’utilizzo delle risorse messele a disposizione. Basti ricordare che dei 75 miliardi di fondi strutturali ricevuti sulla base dell’ultimo quadro finanziario quadriennale (QFP del 20142020), fino allo scorso anno, ne sono stati spesi soltanto il 35%. Le richieste di riforme strutturali sono legittime, tuttavia se il tempo e i cambiamenti dovranno essere rapidi, non si può non tener conto del surplus legislativo che ci affligge e della certificata incapacità a realizzare nel breve interventi riformatori, come le esperienze degli ultimi decenni comprovano.
Ciò non significa doverli abbandonare poiché sarebbe irragionevole dimenticare, per esempio, i rilevanti squilibri scaturiti dall’insuccesso della riforma del 2001. Il più ambizioso processo riformatore mai tentato, che avrebbe dovuto mutare la forma dello Stato attraverso la revisione della parte seconda della Costituzione ma che purtroppo è naufragato in testi approssimativi, molto più modesti di quelli progettati. Non di meno con una regolamentazione diciamo pure di emergenza, comunque in linea con i presupposti e le prerogative costituzionali, è possibile intervenire nel sistema del riparto di competenze tra Stato e Regione
Non servono nuove leggi Occorre aumentarne le capacità progettuali per utilizzare le risorse europee
del settore sanitario, dove è più che mai evidente il mancato raggiungimento dell’obiettivo del percorso federalista e dei patti di stabilità per la salute. D’altra parte quelle attuate si sono rilevate disposizioni in alcuni casi gravemente dannose poiché, nel tentativo di penalizzare gli enti locali inadempienti attraverso il blocco del turnover del personale del servizio sanitario regionale, hanno colpito soprattutto gli abitanti di quelle aree. È tempo di rivedere, e lo si può fare celermente, l’implementazione e la formazione del personale nella pubblica amministrazione e nel settore privato, al fine di omologarlo alla qualità degli altri Paesi europei e aumentarne le capacità progettuali al fine di poter utilizzare le risorse europee la cui erogazione avviene, appunto, per progetti. Ecco quindi che senza bisogno di ulteriori provvedimenti legislativi, per conseguire i risultati vitali che tutti auspicano, è sufficiente che lo Stato si riappropri delle proprie mansioni.