Cronache dalla storia
Lo sguardo di Sergio Romano sul passato: analisi dei fatti, oltre schemi e ideologie
Sergio Romano è uno storico con gli occhi asciutti. Ha le sue opinioni, ovviamente, e anche le sue preferenze. Ma legge la realtà dei nostri giorni con lo sguardo limpido che indaga oltre il mainstream, non turbato di procedere controcorrente rispetto agli schemi dominanti. Controverso, non c’è dubbio. Ma non per il gusto di stupire: perché è lo studio del passato e del presente a portarlo spesso verso conclusioni diverse da quelle solitamente accettate come date. Un conservatore? Probabilmente sì, come lo fu Raymond Aron in Francia: nient’affatto convinto che la storia proceda come immaginata dal progressismo, come marcia verso il mondo migliore.
Ha da poco pubblicato un libro con le Edizioni La Vela — La fantasia della storia, scritti 20122020: raccoglie una serie di articoli su diversi temi scritti nel tempo per «la Lettura», il supplemento culturale del «Corriere della Sera». Non sono solo la testimonianza di una cultura vasta e della conoscenza di un’infinità di eventi: nel loro essere intelligenti e interessanti, oltremodo piacevoli da leggere, propongono anche un metodo. Che sta nel non volersi fermare a una visione unica degli avvenimenti e delle persone che li hanno provocati e popolati.
Un esempio preso casualmente tra i 27 scritti del libro: quello intitolato «La perfida Albione», pubblicato originariamente il 5 ottobre 2014. Per gran parte dell’articolo, Romano racconta, senza livore, in modo fattuale, uno dei lati meno esaltanti dell’establishment passato della Gran Bretagna: le simpatie di una parte non indifferente delle élite del Regno per il fascismo di Mussolini prima e per il nazismo di Hitler poi, soprattutto fino alla metà degli anni Trenta. È un lato della storia sul quale di tanto in tanto si sofferma la storiografia britannica. Per esempio, è appena stato pubblicato a Londra il primo volume (1918-38, un migliaio di pagine) della trilogia dei diari di sir Henry «Chips» Channon (18971958), scalatore sociale, snob, drogato di gossip. Egli stesso convinto dell’utilità antibolscevica del nazismo, attraverso il name
dropping e il pettegolezzo raccolto nell’alta società dipinge un’aristocrazia londinese infatuata del Terzo Reich. Anche Romano tratta il tema, ma a differenza di Channon lo fa da cronista storico, senza sconti per quell’élite, ma conclude scrivendo che poi «la nobiltà britannica si era ravveduta e riscattata perdendo molti dei suoi figli sui campi di battaglia della Seconda guerra mondiale». L’obiettività prima del giudizio.
I fatti e la necessità di collocarli in una visione non ristretta sono più importanti delle ideologie e delle opinioni formate a priori, nel metodo dell’ex ambasciatore, oggi storico e commentatore del «Corriere». «Il fatto è che Romano non appartiene a nessuna fazione predefinita, è davvero un battitore libero spregiudicato quanto attento ai fatti», scrive nella prefazione alla raccolta Antonio Carioti. Ogni articolo riportato nel libro coglie un aspetto forte, lo sviluppa e lo porta alle conclusioni: che si tratti di Napoleone o del soldato Hitler «eroe da ufficio», che parli dei problemi dell’Europa o dello scontro tra Stati Uniti e Cina.
A proposito di Stati Uniti, è evidente che Romano non nutre una particolare fiducia in quella che di solito viene chiamata leadership di Washington. In effetti, nella lettura di La fantasia della storia si può individuare un filo rosso non visibile, ma che corre in molti dei capitoli. È lo scetticismo sull’inevitabilità del progresso e in particolare sulla missione americana (ma forse di tutte le visioni redentrici) di creare un mondo migliore. Romano sembra ritenere che la democrazia e il bene dell’umanità siano solo in alcuni momenti, rari ed eccezionali, le forze che muovono il mondo. I fatti, gli interessi, le personalità, i conflitti, le paure, oggi si potrebbero aggiungere le pandemie,
sono le potenze che modellano la normalità della storia.
Più volte, nella raccolta, l’autore ritorna sull’idea del presidente americano Woodrow Wilson di costituire una Società delle Nazioni dopo la fine della Grande guerra, realizzazione con risultati contrastanti che poi fu seppellita dal Congresso di Washington: i fatti più forti delle missioni. Nello stesso filone di lettura a occhi asciutti della storia americana, Romano constata che John F. Kennedy divenne un’icona e un martire dopo l’assassinio di Dallas. «Con il tempo, tuttavia, l’immagine si è appannata e gli storici hanno cominciato a rileggere criticamente la sua presidenza», aggiunge. Anche se è giusto tenere conto del «tempo supplementare di cui fu drammaticamente privato».
«Gli storici di corte sono sempre esistiti», conclude l’ex ambasciatore: hanno «troppo spesso servito un principe per permettergli di lasciare ai posteri un nobile ritratto di sé stesso». Romano non è dei loro.