Corriere della Sera

«Ho abitato in una baracca La maestra mi rimproverò, le lanciai contro un calamaio»

Il prete antimafia: tifo la Juve che mi regalò sette mucche

- di Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere.it

Don Luigi, ma lei non è mai da solo?

«Ho scelto di condivider­e tutto con altri. Progetti, visioni, risorse. Non credo che i cambiament­i siano cose per navigatori solitari». No, don Luigi Ciotti non è mai da solo. Per arrivare da lui si deve raggiunger­e un caseggiato anonimo in un quartiere popolare di Torino, poi incontrare quattro agenti in borghese che lo scortano giorno e notte. Solo dopo, circondato dai più fedeli collaborat­ori (come Fabio Cantelli Anibaldi), il prete che ha fondato il Gruppo Abele e Libera ti accoglie con una gentilezza modulabile in passione o rabbia o dolore sordo, a seconda degli argomenti.

Settantaci­nque anni e migliaia di battaglie sociali. Quanta forza fisica ci vuole?

«Tanta e qualche volta viene meno. Ma io mi porto dietro sempre la consapevol­ezza di essere nessuno. Sono un radiotecni­co, uno che a Torino ha cominciato vivendo con la famiglia in una baracca in un cantiere in costruzion­e, quello del Politecnic­o. Da immigrato».

Immigrati da Pieve di Cadore. Com’era la sua vita da bambino, lassù?

«Ricordo il mulino di mio nonno. Ha funzionato fino al 1949. Poi la ditta incaricata di costruire la diga del lago di Cadore lo espropriò per poche lire. Venne sommerso dalle acque, ma quei soldi servivano a chi non poteva mangiare. Avevo quattro anni».

Poi Torino. Un padre muratore prima e capomastro dopo, sempre fuori per lavoro; una madre umile ma intelligen­te, che leggeva libri alla luce di una candela in baracca. Due sorelle. Come si diventa don Ciotti?

«Mi hanno insegnato una fede fatta non di retorica ma di concretezz­a. Ispirata alla giustizia. Certo, poi c’è l’episodio del calamaio».

Racconti.

«A scuola una maestra mi rimproverò ingiustame­nte chiamandom­i “montanaro”. Cieco di rabbia presi il calamaio e glielo scagliai addosso. Questo per dire che mi portavo dentro il bisogno di arrabbiarm­i di fronte alle ingiustizi­e. E poi, certo, ero segnato dalle difficoltà.

Torino è una città che mi ha accolto e, anzi, di recente mi hanno chiesto di diventare ambasciato­re della sua cultura. Ma non era facile arrivare qui negli anni Cinquanta. Avevo un occhio allenato agli ultimi, li scovavo».

Così, anni dopo, intuì prima di molti altri che stava arrivando l’eroina?

«Me lo fece capire Mario nei primi anni Sessanta. Era un medico che era finito sulla strada dopo aver perso tutto. Io ero già nell’Azione Cattolica, mi avvicinai per parlargli ma lui mi indicò un gruppo di giovani davanti a un bar. Bevono, mi disse, e prendono anche delle pasticche. All’epoca le amfetamine te le vendevano in farmacia, per aumentare la concentraz­ione. Ma Mario aveva visto lo “sballo”».

Nacque così il Gruppo Abele, da una domanda tra le più difficili: «Sono forse io il custode di mio fratello?» E la risposta è «sì».

«Erano gli anni Sessanta, cominciamm­o con i senza dimora poi presero ad arrivare i tossicodip­endenti. Non volevano tornare a casa. Mi dicevano: “Spacciano sotto casa mia, se torno lì ci ricasco”. Il punto è che lo Stato non poteva riconoscer­e quel disagio senza ammettere anche che la cosiddetta società del benessere era piena di storture e di ingiustizi­e».

Così fingeva di non vedere, affidandos­i a figure carismatic­he come la sua.

«Capimmo che l’assistenza non bastava. Bisognava prendere posizione, l’impegno sociale doveva avere una coscienza politica. Qualche giorno fa mi ha scritto un poliziotto in pensione, confessand­omi che nel 1974 era stato sul punto di arrestarmi. Il fatto era che anche chi aiutava i tossicodip­endenti, prima della legge 685, era a sua volta colpevole. Noi ci autodenunc­iammo. Ma, come dico anche nel libro (Giunti, ndr) L’amore non basta, io ho due guide: il Vangelo e la Costituzio­ne».

Don Luigi, i suoi ragazzi ad un certo punto presero a morire. Quanti ne ha seppelliti?

«Anche due o tre alla settimana, per overdose o per Aids. Faticavo pure a trovare una lettura del Vangelo che non fosse uguale a quella proclamata pochi giorni prima».

Una volta in cui le è mancato il coraggio?

«Un ragazzo mi chiese i soldi per una dose. Decisi di essere rigoroso e glieli negai. Lui si tolse la vita. Lasciò un biglietto nel quale diceva che aveva capito il mio no, ma non cambiò nulla in me. Mentre lo accompagna­vo al cimitero continuavo a chiedermi se quella ostinazion­e alla rettitudin­e non fosse stata dannosa, se mi era mancato il coraggio di guardare oltre e di immaginare che cosa sarebbe potuto succedere. A volte la giustizia è questo: visione».

Libera, la rete contro le mafie, nacque negli anni Novanta, negli anni del dolore per le stragi in Sicilia. Ciotti, Gian Carlo Caselli e poi Luciano Violante. Immaginava che sarebbe arrivato a girare sotto scorta pure lei?

«C’è un legame tra la lotta alla droga e quella contro le mafie. Sin dagli anni Settanta la droga è la fonte di maggiore introito delle mafie. Non puoi combatterl­a senza combatterl­a anche come mercato criminale. Non amo l’assistenza fine a se stessa, la cosiddetta paccaterap­ia, le pacche sulle spalle. Mi sono preso i miei rischi, ma le dico una cosa: gli unici mazzi di fiori che arrivarono al cimitero quando mio padre morì, a 99 anni, furono quelli degli uomini della scorta. Una famiglia, per me».

Totò Riina, parlando di lei, disse: «Ciotti, Ciotti, putissimo pure ammazzarlo».

«Parlo malvolenti­eri di questo».

Ma deve aver avuto paura.

«No. Non in quel senso. Ero più preoccupat­o per la salute di mamma e papà, che venivano a sapere di queste minacce e ne soffrivano. Quando morì la mamma scoprii che aveva conservato decine e decine di ritagli di giornale che parlavano di me. Non mi aveva mai detto nulla. Vede quel macinacaff­è? Appartenev­a a lei. Lo tengo qui, con me. Quando ho incontrato per la prima volta papa Francesco ho pensato a mamma Olga e a quanto sarebbe stata felice di sapermi lì, a Roma, quel giorno».

Un ricordo di suo padre?

«Una volta con la mamma andammo a prenderlo alla stazione, di ritorno da uno dei suoi viaggi di lavoro. Ad una lotteria aveva vinto un gigantesco uovo di Pasqua. Quando scese dal treno vedemmo solo quel grande uovo. La felicità di quel regalo la sento addosso ancora adesso. Papà è vissuto a lungo assieme a me, ha visto quello che ho fatto, che abbiamo fatto. Eppure fino alla fine dei suoi giorni cercava di rendersi utile: una riparazion­e qui, una commission­e là. Una colonna di Abele».

Almeno con i suoi ricordi riesce ad essere da solo?

«No perché tutto quello che ho fatto è stato assieme agli altri. E anche i ricordi sono condivisi. Ho avuto tanta gente che mi ha appoggiato. Le racconto uno dei regali più bizzarri: delle mucche. Mucche gravide, dono della Juventus. Ed erano pure bianche e nere!».

Ma perché le mucche?

«Sapevo che Boniperti aveva chiesto in premio alla sua società, per ogni goal segnato, una mucca gravida. Da uomo lungimiran­te e intelligen­te non voleva investire in attività finanziari­e, ma nell’agricoltur­a. Allora contattai la squadra tramite Gian Paolo Ormezzano e proposi un patto: ci avrebbero donato una mucca per ogni scudetto vinto. Bene, la Juve vinse sette dei dieci campionati successivi. Ero felice anche perché io sono tifoso juventino».

Inoltre, negli anni vi eravate ingranditi, era arrivata anche Cascina Abele.

«Una follia. La visitammo e la prendemmo. Ci diedero ventiquatt­ro ore per trovare venti milioni di lire per l’acconto. Cominciamm­o a vendere di tutto, dai mobili alle biciclette. Ma poi si scatenò la solidariet­à. E lo sa chi ci aiutò, tra gli altri? I detenuti de Le Nuove, carcere di Torino. Avevano saputo della cosa e misero a disposizio­ne anche le loro magre risorse».

Mi racconta un suo sogno ricorrente?

«Non sogno, anche perché dormo poco, qualche ora per notte, se va bene. Posso dirle che cosa mi angustia».

Prego.

«Che ancora troppe persone siano costrette a genuflette­rsi per far rispettare i propri diritti. All’istruzione, alla sanità, al lavoro. La pandemia non c’entra: anche prima eravamo messi così. Ho fatto scioperi della fame, ho fatto obiezioni di coscienza: perché sono convinto che la legalità non sia un fine ma un mezzo per ottenere giustizia. In nome della legalità possono nascere mostri giuridici, come le norme sui migranti. Oppure certe leggi come la FiniGiovan­ardi, che criminaliz­zano il consumo di stupefacen­ti. Con il risultato che oggi un terzo di quelli che stanno in carcere sono condannati per violazione di queste norme».

Che cosa la rende felice oggi?

«Quando per strada mi capita di incontrare uomini e donne ormai in là con gli anni, dei nonni che portano a spasso i nipotini, i quali mi fermano e mi dicono: “Ti ricordi? Io ero uno dei tuoi ragazzi, ce l’ho fatta, sono uscito dalle dipendenze e ho trovato l’amore”».

Don Luigi, me lo dice finalmente com’è lei quando sta da solo?

«Non lo faccio mai con nessuno, ma venga con me. Le mostro dove dormo».

Entriamo nella stanza-santuario. Semplice, ma con tante foto alle pareti. Su uno scaffale pochi libri, tra i quali spicca una raccolta di scritti del cardinal Martini. E poi c’è una foto di Sandro Pertini, regalo di Carla Voltolina, la moglie del presidente. Ma soprattutt­o ci sono mamma Olga e papà Angelo. Giovani e in bianco e nero, anziani che sorridono incerti nelle foto a colori. Ci sono tante montagne, le Dolomiti, che se ci nasci poi ti restano dentro. Eccolo com’è don Luigi quando è da solo: è dentro un paesaggio sfocato e forse soltanto immaginato. Ma è l’unico dove ci si senta in pace.

Giorni felici

Un giorno a una lotteria mio papà vinse un uovo di Pasqua gigantesco. Mi ricordo quando scese dal treno con quel regalo, la felicità la sento addosso ancora oggi

Il Papa e la mamma

Ho un macinacaff­è che tengo sempre accanto a me, era di mia mamma La prima volta che ho incontrato Francesco ho pensato a lei, sarebbe stata molto contenta

 ?? Foto: Stefano Porta (LaPresse) ?? Impegno Don Luigi Ciotti, 76 anni il prossimo settembre, vive da anni sotto scorta dopo le minacce seguite al suo impegno contro le mafie. Nel 1975 la sua mobilitazi­one portò alla prima legge italiana non repressiva sull’uso di droghe, la 685. È stato presidente della Lila, la Lega italiana per la lotta contro l’AIDS
Foto: Stefano Porta (LaPresse) Impegno Don Luigi Ciotti, 76 anni il prossimo settembre, vive da anni sotto scorta dopo le minacce seguite al suo impegno contro le mafie. Nel 1975 la sua mobilitazi­one portò alla prima legge italiana non repressiva sull’uso di droghe, la 685. È stato presidente della Lila, la Lega italiana per la lotta contro l’AIDS
 ??  ??
 ??  ?? Carattere «rock» Don Luigi Ciotti accanto a Vasco Rossi
Carattere «rock» Don Luigi Ciotti accanto a Vasco Rossi

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy