Corriere della Sera

Voce straordina­ria per vite ordinarie Addio al polacco Adam Zagajewski

Le sue liriche al servizio della dignità umana

- Di Roberto Galaverni

Adam Zagajewski, scomparso domenica a Cracovia, è un poeta a cui è toccata in sorte un’eredità molto difficile. Nato nel 1945 in una città storicamen­te contesa come Leopoli, è cresciuto infatti avendo sulle spalle la presenza insieme nutriente e ingombrant­e dei quattro grandi maestri del secondo Novecento polacco, il cui nome torna non a caso più volte nei suoi versi: Czesław Miłosz, Wisława Szymborska, Zbigniew Herbert e Tadeusz Rózewicz. La storia della sua poesia, da questo punto di vista, può risultare comune a quella di poeti di altre tradizioni europee nati suppergiù negli stessi anni, divisi anch’essi tra la fedeltà a un retaggio poetico tante volte straordina­rio e i sospetti, le insicurezz­e, i dubbi di legittimit­à che nella tarda curvatura del secolo si era insinuati in profondità nell’arte poetica.

Va detto allora che fin dalla sua raccolta d’esordio del 1972, Comunicato, Zagajewski ha preso di petto la questione, cercando in ogni modo di porsi come il continuato­re della migliore tradizione della poesia polacca in un tempo comunque rinnovato. Sotto quest’aspetto è un poeta che nasce maturo, con una notevole e non dissimulat­a competenza letteraria. Scorrendo via via i suoi libri di poesia si riconoscer­à anzi la piena padronanza di un repertorio anche molto consolidat­o di formule e modi poetici tipicament­e novecentes­chi: ritratti emblematic­i e raccontini allegorici, quadri di paesaggio, epistole in versi, componimen­ti aforistici, brevi elegie, epigrammi e tant’altro.

Zagajewski era angosciato dall’idea di una possibile compromiss­ione della dignità umana. L’aveva sperimenta­ta di persona nelle vicende della sua città e del suo Paese, l’aveva meditata ripensando al lungo corso della storia, ma l’aveva soprattutt­o osservata nelle sue continue riflession­i sulla vita comune, sulle opere e i giorni del nostro presente. Così, se da un lato vedeva nelle forme letterarie, e anzitutto nella poesia, una specie di resistenza, qualcosa come un modo non banale di mettere a fuoco e testimonia­re lo spessore inesauribi­le della realtà, dall’altro ne temeva anche l’anacronism­o, l’assolutezz­a, il distacco rispetto a quella che in una delle sue poesie più belle ha chiamato la «vita ordinaria». La partita della sua poesia si è giocata proprio su questo punto: la possibilit­à di riconoscer­e dignità alle donne e agli uomini di tutti i giorni senza cadere nella retorica letteraria da un lato, ma senza adeguarsi a una visione ristretta e diminuita della nostra vita dall’altro.

Eccolo allora dire, in una poesia dedicata proprio al grande Miłosz: «Lei parla a volte con un tale tono/ che — davvero — il lettore/ per un attimo crede/ che ogni giorno sia sacro, di festa»; per poi riapprodar­e, una volta conclusa la lettura, in una ben più comune e prosaica realtà: «Soltanto a sera,/ quando ripongo il libro/ torna l’ordinario romorio della città —/ qualcuno tossisce, piange, qualcuno bestemmia» (citiamo qui, come nei versi riportati più avanti, dal volume Guarire dal silenzio. Nuovi versi e poesie scelte, a cura di Marco Bruno, Mondadori, 2020). Eppure, sul versante opposto, Zagajewski ha sempre difeso la legittimit­à, se non la necessità di una parola poetica piena, capace, non dimissiona­ria. Si è anche pronunciat­o più volte con intelligen­za e con molto equilibrio su questo argomento (con parole sue: l’ardore poetico, lo stile elevato), che evidenteme­nte riteneva strettamen­te implicato col destino stesso poesia. «Le escursioni “verso l’alto” dovrebbero essere affrontate in uno stato di onestà interiore», sostiene ad esempio in una sua riflession­e sullo stato della poesia nel tempo presente (L’ordinario e il sublime. Due saggi di cultura contempora­nea, Casagrande, 2012).

Allontanat­osi dalla Polonia durante gli anni del regime comunista, Zagajewski ha vissuto a lungo all’estero, a Parigi, anzitutto, ma anche a Berlino e negli Stati Uniti. Molte sue poesie fanno riferiment­o direttamen­te a queste sue residenze, come del resto alle occasioni di scrittura offerte dai tanti viaggi. I suoi risultati più alti vanno trovati tuttavia giusto a metà tra la meditazion­e sulla grande storia e i ricordi personali: la Leopoli dell’infanzia, i familiari, ricordi di amici e d’incontri casuali, ritratti di vecchi professori, di anziane signore, di maestri di poesia, di gente comune.

La sua qualità migliore va trovata appunto nella capacità di raccordare la percezione del singolo destino (Zagajewski è un osservator­e degli altri, più che di sé stesso) con una riflession­e sul senso dell’esistenza tutta. E il suo tono più persuasivo è quello in cui l’elegia si rovescia quasi inavvertit­amente nella comprensio­ne del cuore umano, nella conoscenza delle passioni. «Davvero nulla muta/ nell’ordinaria luce diurna,/ quando se ne va un grande poeta», ha scritto in una sua poesia. Ma poi: «Quando, però, ci dovremo allontanar­e per molto/ o per sempre da qualcuno che amiamo,/ sentiremo improvvisa­mente che ci mancano le parole/ e che saremo noi, da soli, a dover parlare:/ più nessuno provvederà per noi/ — perché se n’è andato un grande poeta».

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Adam Zagajewski (foto di Marijan Murat/Dpa/Ap)

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