La solitudine del batterista in corsa per sei Oscar: dubbi esistenziali di un eroe
«Sounds of Metal»: una storia di speranze, sforzi, fallimenti
Dopo la caduta. Il titolo del dramma di Arthur Miller (non certo la sua storia) potrebbe adattarsi a quello che racconta Sound of Metal, l’esordio nel lungometraggio di Darius Marder (47 anni, unica cosa notevole fino a ieri la collaborazione alla sceneggiatura di Come un tuono di Cianfrance), film prodotto da Amazon — e per questo visibile in streaming su Prime — e balzato alla ribalta con le sue sei nomination agli Oscar, tra cui quella per il miglior film. Ma non per la miglior regia.
Protagonista del film è Ruben Stone (Riz Ahmed, anche per lui una nomination), il batterista di un gruppo metal la cui cantante è la ragazza con cui divide la sua casa-bus, Lou (Olivia Cooke). Bastano pochissime scene per dirci l’energia e la passione con cui entrambi svolgono il loro ruolo, l’affetto che li lega (il risveglio, con lui che le prepara una colazione vegetariana gioca per contrasto con la musica che abbiamo sentito la sera prima e con il corpo super tatuato di Ruben) e la vita nomade che condividono su un autobus adattato a casa e studio musicale. Quando, all’improvviso, lui inizia ad avere strani disturbi alle orecchie che gli fanno ridurre sensibilmente l’udito (e di cui fa esperienza anche il pubblico, grazie al gran lavoro dei tecnici del suono guidati da Nicolas Becker, anche loro nominati).
Il responso medico è purtroppo senza pietà: Ruben va incontro alla sordità e quei pochi concerti cui vuole partecipare ancora (suonando «a memoria») finiscono per accelerare il processo degenerativo. Ora è praticamente sordo ed è costretto a fare i conti con la propria «solitudine», che lo allontana non solo dalla musica e dai suoni del mondo ma anche dalla amatissima Lou perché il luogo che proprio lei gli ha trovato, una scuola-ricovero per non udenti dove può imparare ad adattarsi alla sua nuova condizione, vuole che gli ospiti restino soli. Senza nessun tipo di presenza amica, spiega il direttore (Paul Raci, candidato agli Oscar come attore non protagonista). E il protettivo cordone ombelicale che legava la coppia, saldato — lo scopriremo adesso — dalla comune uscita dalla tossicodipendenza, viene reciso senza alcuna pietà.
Inizia così per Ruben una specie di personalissimo calvario fatto di speranze, di sforzi, di fallimenti, di confronti con gli altri ospiti della comunità, tra cui i molti ragazzi che come lui iniziano ad imparare il linguaggio dei segni. Un percorso fatto inevitabilmente di alti e bassi — tra i primi la scommessa di insegnare a dei bambini sordi come suonare la batteria (anche se fatta con bidoni di latta), fra i secondi la mancanza sempre più pesante di Lou — che però Ruben vive in maniera ambigua, non come un percorso ancorché lungo e difficile verso l’autosufficienza, ma domandandosi anche se non valga la pena di sottoporsi all’operazione chirurgica che potrebbe permettergli di recuperare l’udito grazie a due impianti cocleari. E che naturalmente il suo maestro vede come un modo per non accettare la sua condizione, inseguendo impossibili guarigioni. Impossibile non ricordare
Anna dei miracoli e i tentativi della piccola Helen di conoscere il mondo che le è negato dalla cecità. Ma il dramma di William Gibson e il successivo film che ne trasse Arthur Penn aveva saputo allargare il percorso di «riconquista» del mondo attraverso il tatto — la storia era ambientata nell’Alabama di un secolo fa — verso una più coinvolgente serie di valenze pedagogiche: contro l’autoritarismo, sulla differenza tra amore e compassione, sul ruolo della famiglia. Invece la sceneggiatura del regista Marder e del fratello Abraham, da un’idea originale di Derek Cianfrance (delle sei nomination conquistate, la più debole) non va più in là dello scontato ritratto dell’«eroe» alle prese con l’ostacolo da superare.
Così, nonostante l’attento lavoro di documentazione sul linguaggio dei segni e i suoi metodi di apprendimento (l’insegnante interpretata da Lauren Ridloff è un’autentica non udente, come molti dei suoi allievi), il film finisce per soffrire di una storia troppo chiusa sul protagonista e le sue indecisioni esistenziali, mostrando le sue cose migliori nella capacità di trasmettere allo spettatore i disturbi acustici che accompagnano i decorsi post operatori (davvero magistrale l’effetto del chiacchiericcio percepito da Ruben nella casa del genitore di Lou), ma non nel costruire un personaggio davvero indimenticabile.