Gli Stati Uniti e il caso Taiwan: se l’ambiguità preserva la pace
Quando i comunisti cinesi conquistarono Pechino, il loro leader, Mao Zedong, proclamò la nascita della Repubblica popolare cinese. Era il 1° ottobre 1949 e un intero continente stava diventando rosso. Ma le repubbliche cinesi da quel momento furono due: quella di Mao e quella di Chiang Kai-shek, un generale fino ad allora capo dello Stato e del Kuomintang (il partito nazionalista cinese). Aveva combattuto contro i comunisti durante la guerra civile, ma era stato battuto e aveva dovuto lasciare il continente per ritirarsi con il suo esercito e l’intera casta politica anticomunista su Taiwan, un’isola a 180 chilometri dalle coste cinesi e allora meglio nota con il nome che le era stato dato dai portoghesi (Formosa). La vecchia Cina potè contare per qualche tempo sul riconoscimento e sulla prudente amicizia degli Stati Uniti, del Regno Unito e di altre democrazie, mentre la nuova Cina era sostenuta dall’Unione Sovietica e dai suoi satelliti.
Da allora il problema cinese è diventato uno dei più imbrogliati della politica internazionale. Quando i rapporti fra la Cina e l’Unione Sovietica cominciarono a guastarsi (Mao era allora più stalinista dei leader di Mosca), Henry Kissinger, per approfittarne, lanciò verso Pechino qualche segnale di amicizia. Fu quello il momento in cui il governo italiano presieduto da Mariano Rumor (il ministro degli Esteri era Pietro Nenni che conosceva il Grande Timoniere per avergli fatto visita nel 1955), incaricò l’ambasciata a Parigi di negoziare con l’ambasciata della Repubblica popolare in Francia la ripresa dei rapporti diplomatici. Passarono alcuni anni, l’Unione Sovietica divenne la Repubblica Russa e gli americani non ebbero più bisogno di corteggiare Pechino per indispettire Mosca. Continuarono tuttavia ad avere bisogno di un amico a Taiwan e non hanno mai smesso di fornirgli armi e aiuti finanziari.
Ma non si sono mai formalmente
Garanzia solo informale
L’America non si è mai impegnata a correre in aiuto se l’isola fosse aggredita da una potenza nemica
impegnati a correre in suo aiuto se l’isola fosse aggredita da una potenza nemica. Oggi, tuttavia, vi sono molti americani che considerano questo silenzio una mancanza di chiarezza e che premono su Biden perché dica al mondo che l’America, se Taiwan venisse aggredita, non starebbe con le mani in mano. È probabile che questa insistente richiesta venga da chi negli Stati Uniti crede nella ineluttabilità di uno scontro con la Cina e non esita a crearne le condizioni.
Ma vi sono circostanze in cui troppa chiarezza nuoce alla pace più di un ambiguo silenzio e vi sono fortunatamente persone a Washington che vorrebbero trattare la questione più diplomaticamente facendo appello all’amicizia del Giappone.