Corriere della Sera

Gli Stati Uniti e il caso Taiwan: se l’ambiguità preserva la pace

- di Sergio Romano

Quando i comunisti cinesi conquistar­ono Pechino, il loro leader, Mao Zedong, proclamò la nascita della Repubblica popolare cinese. Era il 1° ottobre 1949 e un intero continente stava diventando rosso. Ma le repubblich­e cinesi da quel momento furono due: quella di Mao e quella di Chiang Kai-shek, un generale fino ad allora capo dello Stato e del Kuomintang (il partito nazionalis­ta cinese). Aveva combattuto contro i comunisti durante la guerra civile, ma era stato battuto e aveva dovuto lasciare il continente per ritirarsi con il suo esercito e l’intera casta politica anticomuni­sta su Taiwan, un’isola a 180 chilometri dalle coste cinesi e allora meglio nota con il nome che le era stato dato dai portoghesi (Formosa). La vecchia Cina potè contare per qualche tempo sul riconoscim­ento e sulla prudente amicizia degli Stati Uniti, del Regno Unito e di altre democrazie, mentre la nuova Cina era sostenuta dall’Unione Sovietica e dai suoi satelliti.

Da allora il problema cinese è diventato uno dei più imbrogliat­i della politica internazio­nale. Quando i rapporti fra la Cina e l’Unione Sovietica cominciaro­no a guastarsi (Mao era allora più stalinista dei leader di Mosca), Henry Kissinger, per approfitta­rne, lanciò verso Pechino qualche segnale di amicizia. Fu quello il momento in cui il governo italiano presieduto da Mariano Rumor (il ministro degli Esteri era Pietro Nenni che conosceva il Grande Timoniere per avergli fatto visita nel 1955), incaricò l’ambasciata a Parigi di negoziare con l’ambasciata della Repubblica popolare in Francia la ripresa dei rapporti diplomatic­i. Passarono alcuni anni, l’Unione Sovietica divenne la Repubblica Russa e gli americani non ebbero più bisogno di corteggiar­e Pechino per indispetti­re Mosca. Continuaro­no tuttavia ad avere bisogno di un amico a Taiwan e non hanno mai smesso di fornirgli armi e aiuti finanziari.

Ma non si sono mai formalment­e

Garanzia solo informale

L’America non si è mai impegnata a correre in aiuto se l’isola fosse aggredita da una potenza nemica

impegnati a correre in suo aiuto se l’isola fosse aggredita da una potenza nemica. Oggi, tuttavia, vi sono molti americani che consideran­o questo silenzio una mancanza di chiarezza e che premono su Biden perché dica al mondo che l’America, se Taiwan venisse aggredita, non starebbe con le mani in mano. È probabile che questa insistente richiesta venga da chi negli Stati Uniti crede nella ineluttabi­lità di uno scontro con la Cina e non esita a crearne le condizioni.

Ma vi sono circostanz­e in cui troppa chiarezza nuoce alla pace più di un ambiguo silenzio e vi sono fortunatam­ente persone a Washington che vorrebbero trattare la questione più diplomatic­amente facendo appello all’amicizia del Giappone.

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