Vietnam sempre alla prova nelle tempeste della storia
Dopo una serie devastante di conflitti armati, l’indubbio successo nel contenimento della pandemia
Sin dall’inizio della pandemia Covid-19 il linguaggio adottato dai media, ma pure da molte autorità politiche, si è nutrito di paragoni presi a prestito dal gergo militare e bellico. Quella contro il coronavirus è una guerra — si dice — che richiede una mobilitazione di massa per condurci alla vittoria e annientare il nemico. Forse non a caso in alcuni Paesi — inclusa l’Italia — alte gerarchie militari si sono viste attribuire ruoli strategici nella gestione della crisi sanitaria e hanno accentuato pure le posture e gestualità tipiche del loro ruolo.
Se questo, da una parte, ha innestato alcune polemiche imperniate sul timore di una velata svolta autoritaria, dall’altra ha profuso un sentimento di sicurezza e, forse, ha compattato i cittadini facendo leva sul loro sentimento patriottico in nome di una massiva «chiamata alle armi».
Viene tuttavia da chiedersi se la lotta contro la pandemia possa essere assimilata ad una vera e propria guerra. Il nemico, infatti, non indossa un’uniforme ma è invisibile; l’offensiva non è intermittente, ossia un susseguirsi di attacchi e di ritirate, ma costante e continua; non esiste una chiara identificazione del concetto di «fronte» e nemmeno una separazione netta fra coloro che si trovano impiegati o meno in esso; infine, l’opzione dell’armistizio o del trattato di pace non è praticabile.
Ma se proprio si vuole accettare il paragone bellico nell’ambito della crisi in corso, allora le strategie adottate dai vari Paesi, nonché l’efficacia del proprio «arsenale militare», andrebbero giudicate, come in ogni conflitto militare, sulla base dello scarto fra perdite inflitte al nemico e perdite subite. Nell’impossibilità logica di contabilizzare il primo flusso, rimane la sola partita doppia dei propri «feriti» e «caduti».
A questo proposito, quotidianamente, vengono riportate statistiche impietose dei maggiori Paesi; curve epidemiologiche che si snodano verso l’alto, si avvitano e magari si ripiegano su sé stesse per qualche giorno per poi riprendere un minaccioso andamento crescente. La vittoria sembra ancora lontana e quando arriverà avrà comunque disseminato di milioni di
Un popolo costretto ad affrontare 70 anni di guerre contro nemici molto più potenti
Il presente
Nonostante il regime dittatoriale, la società civile dimostra un positivo dinamismo
cadaveri il campo di battaglia. Cifre vertiginose riassumono gli effetti devastanti del Covid-19 in Europa, negli Usa, nell’America del Sud, in Giappone, in Cina.
Vi è tuttavia il caso di un Paese che sembra aver vinto la guerra dei numeri e che potrebbe, in maniera del tutto legittima, attribuirsi un trionfo militare: il Vietnam. Cifre stupefacenti, involontariamente o colpevolmente da noi ignorate, forse schiacciati dal peso dell’invidia o dalla volontà di evitare che un Paese ancora comunista sia assunto quale modello: contagiati 2.714, guariti 2.445, decessi 35.
Stupefacente. Ma forse non troppo, almeno per coloro che subiscono il fascino bellico. Il Vietnam negli ultimi settant’ anni è infatti uscito vittorioso da tutti i conflitti militari in cui si è trovato coinvolto. E i suoi numerosi nemici non erano certamente degli sprovveduti. Francesi, nella guerra d’Indocina degli anni Cinquanta in cui pure la Legione Straniera subì devastanti rovesci; americani, in quella famosissima che doveva inizialmente consistere in un piccolo intervento di assestamento geopolitico di qualche settimana ma che durò invece dodici anni, con centinaia di migliaia di statunitensi morti in combattimento o in seguito a ferite, invalidi fisici e psichici e reduci incapaci di reinserimento sociale. Poi ci fu l’invasione della Cambogia nel 1978 con il rovesciamento del sanguinario regime dei Khmer Rossi, i cui orrori finalmente giunsero agli occhi della «sensibilità umanitaria» occidentale e, infine, gli scontri con i cinesi l’anno successivo, quando questi invasero una parte del territorio vietnamita e furono prontamente e impietosamente respinti.
La vittoria «militare» del Vietnam contro il coronavirus — la nuova offensiva vittoriosa del Têt — dovrebbe far riflettere, magari sollecitando l’interrogativo sul come e sul perché essa sia stata possibile, senza rifugiarsi esclusivamente nella formula usuale e auto-assolutoria del «è una dittatura e certe misure da noi politicamente impraticabili là possono venire adottate». Certamente molte libertà politiche e civili nel Vietnam sono limitate e talvolta totalmente negate e persistono ancora grandi scarti in termini di partecipazione civile, reddito, accesso alle istituzioni, libertà di espressione. Ma la dinamica del Paese in tanti settori è enorme e pure sul piano culturale c’è da rimanere stupiti.
Ho insegnato ad Hanoi. Ho trovato una società moderna e vitale; ho goduto dell’amicizia di colleghi, studenti e di tante altre persone. Ho conosciuto tre giovanissime professoresse di italiano che in seguito ho ospitato a Trieste, in quanto erano state invitate dalla Scuola Interpreti e Traduttori della città. Tre ragazze poliglotte, nutrite di cultura e con un grande amore per l’Italia che non trascolora tuttavia in nessuna idolatria esterofila; corpi asciutti e armoniosi come d’altronde tutti i vietnamiti, dialogo frizzante, coinvolgente, pure ironico. Mi hanno spesso parlato del loro Paese, cucinato le loro specialità, regalandomi affetto e simpatia, fino al punto di attribuirmi il titolo familiare di anh trai Francesco e a mio padre quello di ba Claudio. Anche loro in questo periodo stanno contribuendo alla nuova vittoriosa offensiva del Têt mentre americani, francesi e cinesi, a loro tempo militarmente sconfitti, non riescono ancora a contenere l’avanzata del nuovo nemico invisibile.