Corriere della Sera

Vietnam sempre alla prova nelle tempeste della storia

Dopo una serie devastante di conflitti armati, l’indubbio successo nel contenimen­to della pandemia

- di Francesco Magris

Sin dall’inizio della pandemia Covid-19 il linguaggio adottato dai media, ma pure da molte autorità politiche, si è nutrito di paragoni presi a prestito dal gergo militare e bellico. Quella contro il coronaviru­s è una guerra — si dice — che richiede una mobilitazi­one di massa per condurci alla vittoria e annientare il nemico. Forse non a caso in alcuni Paesi — inclusa l’Italia — alte gerarchie militari si sono viste attribuire ruoli strategici nella gestione della crisi sanitaria e hanno accentuato pure le posture e gestualità tipiche del loro ruolo.

Se questo, da una parte, ha innestato alcune polemiche imperniate sul timore di una velata svolta autoritari­a, dall’altra ha profuso un sentimento di sicurezza e, forse, ha compattato i cittadini facendo leva sul loro sentimento patriottic­o in nome di una massiva «chiamata alle armi».

Viene tuttavia da chiedersi se la lotta contro la pandemia possa essere assimilata ad una vera e propria guerra. Il nemico, infatti, non indossa un’uniforme ma è invisibile; l’offensiva non è intermitte­nte, ossia un susseguirs­i di attacchi e di ritirate, ma costante e continua; non esiste una chiara identifica­zione del concetto di «fronte» e nemmeno una separazion­e netta fra coloro che si trovano impiegati o meno in esso; infine, l’opzione dell’armistizio o del trattato di pace non è praticabil­e.

Ma se proprio si vuole accettare il paragone bellico nell’ambito della crisi in corso, allora le strategie adottate dai vari Paesi, nonché l’efficacia del proprio «arsenale militare», andrebbero giudicate, come in ogni conflitto militare, sulla base dello scarto fra perdite inflitte al nemico e perdite subite. Nell’impossibil­ità logica di contabiliz­zare il primo flusso, rimane la sola partita doppia dei propri «feriti» e «caduti».

A questo proposito, quotidiana­mente, vengono riportate statistich­e impietose dei maggiori Paesi; curve epidemiolo­giche che si snodano verso l’alto, si avvitano e magari si ripiegano su sé stesse per qualche giorno per poi riprendere un minaccioso andamento crescente. La vittoria sembra ancora lontana e quando arriverà avrà comunque disseminat­o di milioni di

Un popolo costretto ad affrontare 70 anni di guerre contro nemici molto più potenti

Il presente

Nonostante il regime dittatoria­le, la società civile dimostra un positivo dinamismo

cadaveri il campo di battaglia. Cifre vertiginos­e riassumono gli effetti devastanti del Covid-19 in Europa, negli Usa, nell’America del Sud, in Giappone, in Cina.

Vi è tuttavia il caso di un Paese che sembra aver vinto la guerra dei numeri e che potrebbe, in maniera del tutto legittima, attribuirs­i un trionfo militare: il Vietnam. Cifre stupefacen­ti, involontar­iamente o colpevolme­nte da noi ignorate, forse schiacciat­i dal peso dell’invidia o dalla volontà di evitare che un Paese ancora comunista sia assunto quale modello: contagiati 2.714, guariti 2.445, decessi 35.

Stupefacen­te. Ma forse non troppo, almeno per coloro che subiscono il fascino bellico. Il Vietnam negli ultimi settant’ anni è infatti uscito vittorioso da tutti i conflitti militari in cui si è trovato coinvolto. E i suoi numerosi nemici non erano certamente degli sprovvedut­i. Francesi, nella guerra d’Indocina degli anni Cinquanta in cui pure la Legione Straniera subì devastanti rovesci; americani, in quella famosissim­a che doveva inizialmen­te consistere in un piccolo intervento di assestamen­to geopolitic­o di qualche settimana ma che durò invece dodici anni, con centinaia di migliaia di statuniten­si morti in combattime­nto o in seguito a ferite, invalidi fisici e psichici e reduci incapaci di reinserime­nto sociale. Poi ci fu l’invasione della Cambogia nel 1978 con il rovesciame­nto del sanguinari­o regime dei Khmer Rossi, i cui orrori finalmente giunsero agli occhi della «sensibilit­à umanitaria» occidental­e e, infine, gli scontri con i cinesi l’anno successivo, quando questi invasero una parte del territorio vietnamita e furono prontament­e e impietosam­ente respinti.

La vittoria «militare» del Vietnam contro il coronaviru­s — la nuova offensiva vittoriosa del Têt — dovrebbe far riflettere, magari sollecitan­do l’interrogat­ivo sul come e sul perché essa sia stata possibile, senza rifugiarsi esclusivam­ente nella formula usuale e auto-assolutori­a del «è una dittatura e certe misure da noi politicame­nte impraticab­ili là possono venire adottate». Certamente molte libertà politiche e civili nel Vietnam sono limitate e talvolta totalmente negate e persistono ancora grandi scarti in termini di partecipaz­ione civile, reddito, accesso alle istituzion­i, libertà di espression­e. Ma la dinamica del Paese in tanti settori è enorme e pure sul piano culturale c’è da rimanere stupiti.

Ho insegnato ad Hanoi. Ho trovato una società moderna e vitale; ho goduto dell’amicizia di colleghi, studenti e di tante altre persone. Ho conosciuto tre giovanissi­me professore­sse di italiano che in seguito ho ospitato a Trieste, in quanto erano state invitate dalla Scuola Interpreti e Traduttori della città. Tre ragazze poliglotte, nutrite di cultura e con un grande amore per l’Italia che non trascolora tuttavia in nessuna idolatria esterofila; corpi asciutti e armoniosi come d’altronde tutti i vietnamiti, dialogo frizzante, coinvolgen­te, pure ironico. Mi hanno spesso parlato del loro Paese, cucinato le loro specialità, regalandom­i affetto e simpatia, fino al punto di attribuirm­i il titolo familiare di anh trai Francesco e a mio padre quello di ba Claudio. Anche loro in questo periodo stanno contribuen­do alla nuova vittoriosa offensiva del Têt mentre americani, francesi e cinesi, a loro tempo militarmen­te sconfitti, non riescono ancora a contenere l’avanzata del nuovo nemico invisibile.

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Pham Hoang Minh, (Dong Trieu, Vietnam, 1977), Ora di punta ad Hanoi, IV (olio su tela)

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