LA TRINCEA DEBOLE DEI NO VAX
Dietro quel 12 per cento Il sistema educativo non incentiva l’interesse del pubblico per la scienza, la politica registra questo fatto e vi si adatta, non ha interesse a spezzare il circolo
Il sondaggio di cui ha dato conto Nando Pagnoncelli su questo giornale il 17 aprile ci dice che il 12 per cento dei nostri connazionali ha deciso di non vaccinarsi contro il Covid e un altro venti per cento è indeciso se farlo o no. Non sono numeri irrilevanti, anche se un ottimista, uno portato a pensare che il bicchiere sia sempre mezzo pieno, potrebbe sostenere che per effetto della confusione e del bombardamento di notizie contrastanti a cui è stata esposta per mesi e mesi la pubblica opinione, i no vax, a questo punto, potrebbero essere molti di più.
Bisognerebbe scavare un po’ a fondo, disporre di informazioni che non abbiamo. Per esempio, bisognerebbe stabilire se ci sia o no una correlazione fra il rifiuto del vaccino anti-Covid e il rifiuto, in epoca precedente allo scoppio della pandemia, di ogni altro tipo di vaccino. Sono le stesse persone? O, per lo meno, fra i due gruppi c’è una parziale sovrapposizione? Inoltre, sarebbe interessante stabilire quanti degli attuali no vax credano all’una o all’altra variante, fra quelle circolanti, delle teorie del complotto (secondo le quali la pandemia non esiste oppure è stata scatenata e drammatizzata ad arte dagli «oscuri poteri» che decidono le sorti del mondo).
In ogni caso, nel rifiuto o nello scetticismo di questi nostri connazionali sembrano pesare sia fattori contingenti, legati alla situazione del momento, sia cause di più ampio respiro e di più antica origine.
Fra i fattori contingenti ci sono state le notizie contrastanti sulla pericolosità o meno di questo o quel vaccino, notizie che, in certi momenti, sembravano oscurare il fatto che la cosa davvero pericolosa, la più letale di tutte, era e resta il Covid. C’è poi quella che chiamerei indigestione da ansia. Si può anche ritenere, come certi addetti alla comunicazione sembrano ritenere, che una notizia (qualunque sia l’argomento) non sia una vera notizia se non è tagliata in modo da diffondere il massimo possibile di ansia. Ma poi bisogna fare i conti con le strategie di autodifesa che molte persone , inevitabilmente, prima o poi mettono in atto. Alla fine, tutta questa ansia finisce per generare assuefazione o rifiuto puro e semplice di prendere ancora sul serio quanto ci viene comunicato. Nei casi estremi (una parte almeno dei no vax, probabilmente, ricade in questa categoria) si finisce per pensare che fra il mondo ansiogeno della comunicazione e il mondo reale non ci sia alcuna relazione.
Tra i fattori contingenti metterei anche il comportamento di una parte degli esperti, i virologi. Diventati inevitabilmente, da un anno a questa parte, protagonisti della comunicazione. Naturalmente, non si può fare di tutta l’erba un fascio. Diversi di loro sono stati e sono ineccepibili: hanno messo a disposizione, con serietà e compostezza, le loro conoscenze sulla malattia. Ma altri non sono stati altrettanto rigorosi. Diventati improvvisamente star, hanno perso la testa, hanno bisticciato fra loro disorientando il pubblico, si sono impicciati di cose su cui non hanno alcuna competenza o una competenza solo parziale. La ragione per cui spetta alla politica, e non al virologo, ad esempio, decidere su tempi e ritmi della riapertura delle attività, è che tali decisioni devono tenere conto di una pluralità di aspetti: anche di quanto sostiene il virologo ma mai solo di quel che costui sostiene. Certe invasioni di campo sono state stupide e controproducenti. E di sicuro non sono servite a rendere la scienza più credibile agli occhi dei tanti già prevenuti per loro conto.
Oltre a tutto, ascoltando i virologi, un orecchio un po’ allenato era in grado di distinguere gli scienziati seri e quelli meno seri. Ad esempio, chi si mette a fare affermazioni apodittiche, perentorie, sull’andamento futuro della malattia senza nemmeno aggiungere un «forse» o un «può essere che», ha l’aria più dello stregone che dello scienziato. È pessima divulgazione trasformare in asserzioni dogmatiche le indicazioni probabilistiche ricavabili dalla ricerca.
Tra i fattori non contingenti, diciamo così «strutturali», ci sono certamente quelli che, da sempre, contribuiscono a fare di tanti italiani (anche diplomati e laureati) persone afflitte da analfabetismo scientifico, persone che non hanno la più pallida idea di cosa sia la scienza . Il principale imputato è il sistema educativo. Un tempo si sarebbe detto che la causa di quelle carenze consistesse nel predominante orientamento umanistico-letterario dei nostri curricula scolastici. Inadatti a valorizzare le vocazioni scientifiche e anche, più semplicemente, a mettere le persone in grado di comprendere in che cosa consista il metodo scientifico. Questa classica osservazione sul nostro sistema educativo vale ormai fino a un certo punto. A causa della decadenza, documentata, ad esempio, dai risultati dei test Invalsi, e che coinvolge molte scuole — anche se fortunatamente non tutte — degli stessi percorsi umanistici (Dante chi?). In ogni caso, la scuola, di ieri come di oggi, non fornisce, se non a pochissimi, gli strumenti necessari per fare i conti con la scienza e i suoi risvolti applicativi, per comprenderne le implicazioni.
Tutto ciò influenza negativamente gli atteggiamenti della classe dirigente. Poiché essa si forma, per lo più, nelle stesse scuole in cui si sono formati gli altri italiani, è spesso altrettanto a digiuno di scienza. Anche la maggior parte dei politici ne sa poco o nulla. Però è anche vero che la politica è, per definizione, opportunista: se gli elettori mostrano di tenere in conto la scienza, allora i politici li seguono. Ma è raro che ciò accada. È un circolo vizioso: il sistema educativo non incentiva l’interesse del pubblico per la scienza, la politica registra questo fatto e vi si adatta, non ha interesse a spezzare il circolo.
Forse hanno davvero ragione gli ottimisti: con queste premesse, il 12 per cento di no vax, più una fascia di indecisi, non è molto. Potrebbe andare peggio.