Corriere della Sera

ITALIANI SERGIO RUBINI

- (Getty Images)

sembrava una cosa da vecchi parrucconi, che coincideva col mondo degli adulti».

Ma lei cosa voleva fare?

«Volevo suonare. Il piano, l’organo, a 16 anni volevo fare il musicista rock, mi tinsi anche i capelli color carota come David Bowie. Poi il mio gruppo pensò bene di trovare un altro pianista, più bravo di me, questo mi aiutò a capire che quella non era la mia strada, così, per disperazio­ne accettai la proposta di mio padre e recitai con la sua compagnia Natale in casa Cupiello: facevo suo figlio».

Come andò?

«Alle prove non capivo nulla, mi divertii molto allo spettacolo. Del mestiere dell’attore ebbi consapevol­ezza quella sera. Riuscivo a essere comico, a gestire le pause e i rumori del pubblico. Ero anche bravo».

Torniamo al suo arrivo a Roma e alle sue prime esperienze teatrali.

«Dopo la pensione andai a vivere a casa dei cugini romani di mamma, lei una germanista, lui un sindacalis­ta con la passione della musica classica. Anni formativi di letture. Andavo a vedere gli spettacoli di Carmelo Bene e lì ho capito che bisogna pescare dal proprio passato e che dovevo fare scuola di dizione ma non perdere il mio background. In altre parole, grazie a Carmelo Bene ho capito che l’attore è anche autore. A vent’anni andai a lavorare con Andrea Camilleri».

Era un testo di Camilleri?

«No, lui curava la regia. È stato mio insegnante all’Accademia, dov’era parcheggia­to. Era un grande narratore, le sue lezioni erano fantastich­e. Ma forse era un po’ insoddisfa­tto tra sceneggiat­ure, regie e lavori saltuari in tv. Ho sempre mantenuto un rapporto con lui, l’ho visto poco prima che se ne andasse, dovevo fare la voce narrante per un suo spettacolo a Caracalla su Caino ma non ci fu il tempo».

Il primo successo a teatro è «La stazione».

«Ero irregiment­ato nei teatri Stabili, tutti imborghesi­ti in una modalità poco creativa e artistica, ai miei occhi di ventenne. All’inizio degli anni Ottanta ho conosciuto Umberto Marino e Ennio Coltorti, l’autore e il regista. C’era un teatro libero a Trastevere e nel giro di una settimana ho recitato in un monologo ispirato al fatto che ero purtroppo ingessato per un incidente alla clavicola, uno dei miei due personaggi era un salumiere pugliese, questo mi faceva tenere il passo nei luoghi d’origine. Il secondo spettacolo fu La stazione, il mio primo vero successo: risentivo l’odore dei treni di mio padre ferroviere, rivedevo le cartelle del personale viaggiante…».

Quale idea di teatro c’era?

Il valore degli anziani

La fine del matrimonio

«Raccontare quello che conoscevo cercando di riprodurlo in scena, ci dicevamo che Eduardo era stato l’unico ad aver descritto la realtà, ma erano anni lontani. Poi più nessuno. Perché parlare del mondo attraverso Mamet, Shepard, le parole degli americani? Dovevamo darci da fare, piuttosto che fare il verso alla realtà… Contempora­neamente incontrai Federico Fellini per il film Intervista».

Lei definì Fellini il burattinai­o che attaccava al chiodo il burattino-attore dopo le riprese.

«No, anzi, la vera scoperta fu che il più delle volte coinvolgev­a le persone che recitavano per lui. Il giorno prima di andare a girare una scena a casa di Anita Ekberg, mi chiamò e mi disse: domani in auto saremo io, tu e Marcellino (Mastroiann­i, ndr). Immagino che un giovane attore avrà qualche domandina da fargli. Scriviti qualche battuta. Federico era così con tanti, poi faceva una sintesi. Era il regista della memoria ma gli importava ciò che aveva intorno in quel momento, il presente».

In quel film, lei interpreta Fellini.

«A me però questo non lo disse mai. Spiavo i suoi gesti, dovevo avere l’espression­e dello stupore. Gli ricordai che tre anni prima, per E la nave va gli avevo portato una mia foto. Mi rispose sorridendo: ma non è possibile, allora sono un mago! Gli ho dato sempre del lei, lui ogni tanto cercava di venirmi incontro, per sfottermi mi diceva: chiamami Fefè. Mi spiace che per la pandemia le celebrazio­ni del centenario non ci siano state».

Chi può somigliare a Fellini?

«Grandi vecchi come lui ce ne sono sempre meno, c’erano nel giornalism­o, nella politica, nella letteratur­a. Qualcuno ha pensato che dovessimo rottamare i vecchi, poi ci si è messo il Covid. Abbiamo perso le nostre guide, che in passato erano sacre. Tra loro c’erano anche visionari come Fellini, pensa alla battaglia contro la tv che si stava mangiando il cinema, in Intervista gli indiani all’assalto di Cinecittà la fanno con le antenne della tv».

E con Mastroiann­i come andò?

«Avevo saputo che per I soliti ignoti vent’anni dopo non mi avevano dato il ruolo perché Mastroiann­i aveva espresso parere negativo. Dovevo essere suo figlio. Marcello poi mi disse che ero troppo magro, suo figlio, lui, se lo immaginava più cicciottel­lo, non c’era altro».

Un altro mondo. Ma come vede il cinema post Covid?

«Non esisterà più come lo conosciamo e dovremo prenderne atto per rifondarlo. Il cinema diventerà di nicchia e passerà di moda come i cd. La gente non ha smesso di ascoltare la musica: è cambiato il supporto. Così sarà per il cinema. Che già languiva prima della pandemia. Certo il film in sala rende di più, ma non ci sono più le sale. Tanti film si stanno producendo e se ne devono smaltire molti: dove si vedranno? Quanto alle serie, sono prodotti sospesi a cui manca la chiusura di un senso compiuto, mentre un film ti impone un ragionamen­to, ti racconta un mondo. Prodotti sospesi, con la pandemia è tutto sospeso».

E come preservare la nostra identità?

«Le grandi produzioni italiane sono di comproprie­tà di stranieri, è una proprietà anche economica e culturale. I gruppi italiani crescono e poi se li comprano da fuori, è una tendenza che riguarda non solo il cinema, sotto traccia, stiamo vendendo tutto e non se ne parla».

Lei ha fatto tanti anni di analisi.

«L’ho cominciata quando finì il mio matrimonio con Margherita Buy. Intorno ai 40 anni rischiavo di perdermi nella vita da single, forse mi sentivo troppo libero. L’analisi mi ha aiutato a fidarmi degli affetti e mi ha tolto dalla superstizi­one… Cercavo segni, simboli, avevo lavorato con Fellini, le realtà parallele, il sogno».

Perché finì con Margherita?

«Forse eravamo troppo giovani. Margherita la conobbi mentre recitava a teatro, prima fu un innamorame­nto artistico. Oggi abbiamo un buonissimo rapporto, non abbiamo problemi quando lavoriamo insieme, è fantastica, è rimasta com’era, pronta a scherzare e improvvisa­mente a nevrotizza­rsi, poi a ridere e a ricomincia­re».

Da vent’anni lei è con Carla Cavalluzzi. Ha girato tanto e…

Ride: «E ho trovato la compagna del mio stesso paese, Grumo Appula, quando la mia prima storia la ebbi in Norvegia. Carla è del 1976, ha 17 anni meno di me, è la nipote di una delle migliori amiche di mia madre, frequentav­a casa mia da piccola, quando era bambina Margherita ci giocava. Moglie e buoi… è quasi banale ma è andata così. Scriviamo sceneggiat­ure insieme, abbiamo finito il film sui De Filippo, Eduardo, Peppino e Titina, che va dalla morte del loro padre naturale, nel 1925, alla sera del ’31 quando debuttano in Natale in casa Cupiello, una storia familiare di rivalse, di giovani partiti dalle retrovie. Li racconto come se fossero i Beatles».

Esiste la nostalgia del Sud?

A Fellini davo sempre del lei. Grandi vecchi come lui ce ne sono sempre meno: qualcuno ha pensato che dovessimo rottamarli, poi ci si è messo il Covid

Forse io e Margherita eravamo troppo giovani Oggi abbiamo un buonissimo rapporto, lavoriamo insieme senza problemi, è fantastica, è rimasta com’è

«In senso traslato, per la fanciullez­za che mi riporta a un’età trascorsa lì. Come dice Proust, il passato è fatto di luoghi astratti, ciò che li distingue sono le persone con cui hai condiviso quei luoghi. Quando non esistono più quelle persone, non esistono quei luoghi».

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Rubini in un disegno di Federico Fellini per il film «Intervista» (1987)
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