PLATEATICO, UN TRIBUTO DAL MEDIOEVO
Ma che meraviglia gli infiniti ricordi che la nostra lingua ci rinnova. All’improvviso, sulla scia delle notizie sulle riaperture previste a partire dal 26 aprile, le cronache si sono riempite di particolari regole sul plateatico. Scatenando dubbi e domande. Cos’è? Una parola straniera mal tradotta (ne usiamo a centinaia per farci belli con inglesismi cialtroni); il nome di un provvedimento intitolato a un oscuro parlamentare? L’onorevole Plateatico? Niente di tutto questo: plateatico è una parola italianissima in uso dal 1500 ( fa fede il dizionario De Mauro) figlia del latino plateaticum, derivata a sua volta da platea, che significa «via larga, piazza». Non solo, siamo alle prese con una straordinaria continuità di significato. Perché fin dal medioevo plateatico è un tributo, la tassa che si paga per poter utilizzare a scopo privato una porzione di spazio pubblico. Insomma, la tassa di occupazione del suolo pubblico che si versa al comune per le bancarelle del mercato o i tavolini del bar e del ristorante. E qui torniamo al perché plateatico è tornato prepotente all’attenzione delle cronache proprio in vista della possibilità di ripresa delle attività commerciali di ristorazione dal 26 aprile, in particolare se dispongono di spazi all’aperto. Fa effetto pensare alla civiltà, fin dal medioevo, che imponeva di riconoscere alla collettività (il comune o la Repubblica di Venezia che l’ha mantenuto fino all’età moderna) un contributo per poter esercitare un commercio privato. Tanto da aver superato i confini e aver condizionato i cugini francesi che da qui hanno tratto il loro plaçage o placeage. Ma a noi piace farci belli coi forestierismi. Quando usiamo il francese dehors per indicare i tavolini all’aperto di bar e ristoranti, in realtà citiamo il latino volgare deforis. A voler esagerare si potrebbe dire che i più colti sono i romani, quando usano la frase dialettale «de fora». Altro che plateatico.