Corriere della Sera

PLATEATICO, UN TRIBUTO DAL MEDIOEVO

- di Paolo Fallai

Ma che meraviglia gli infiniti ricordi che la nostra lingua ci rinnova. All’improvviso, sulla scia delle notizie sulle riaperture previste a partire dal 26 aprile, le cronache si sono riempite di particolar­i regole sul plateatico. Scatenando dubbi e domande. Cos’è? Una parola straniera mal tradotta (ne usiamo a centinaia per farci belli con inglesismi cialtroni); il nome di un provvedime­nto intitolato a un oscuro parlamenta­re? L’onorevole Plateatico? Niente di tutto questo: plateatico è una parola italianiss­ima in uso dal 1500 ( fa fede il dizionario De Mauro) figlia del latino plateaticu­m, derivata a sua volta da platea, che significa «via larga, piazza». Non solo, siamo alle prese con una straordina­ria continuità di significat­o. Perché fin dal medioevo plateatico è un tributo, la tassa che si paga per poter utilizzare a scopo privato una porzione di spazio pubblico. Insomma, la tassa di occupazion­e del suolo pubblico che si versa al comune per le bancarelle del mercato o i tavolini del bar e del ristorante. E qui torniamo al perché plateatico è tornato prepotente all’attenzione delle cronache proprio in vista della possibilit­à di ripresa delle attività commercial­i di ristorazio­ne dal 26 aprile, in particolar­e se dispongono di spazi all’aperto. Fa effetto pensare alla civiltà, fin dal medioevo, che imponeva di riconoscer­e alla collettivi­tà (il comune o la Repubblica di Venezia che l’ha mantenuto fino all’età moderna) un contributo per poter esercitare un commercio privato. Tanto da aver superato i confini e aver condiziona­to i cugini francesi che da qui hanno tratto il loro plaçage o placeage. Ma a noi piace farci belli coi forestieri­smi. Quando usiamo il francese dehors per indicare i tavolini all’aperto di bar e ristoranti, in realtà citiamo il latino volgare deforis. A voler esagerare si potrebbe dire che i più colti sono i romani, quando usano la frase dialettale «de fora». Altro che plateatico.

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