Conflitti
Il libro di Gangemi (Piemme) Italiani negli Usa: gente di mezzo tra bianchi e neri
Di ’ndrangheta è proprio stufo, Mimmo Gangemi. Stufo dello sforzo esistenziale di discernere colpa e innocenza in Calabria. La serie poliziesca del Giudice meschino gli ha dato fama ma la sua passione è la saga familiare, il romanzo di popolo.
Ecco perché sorprende fino a un certo punto vederlo raccontare, stavolta, i siciliani, i siciliani d’America. Con Il Popolo di mezzo (Piemme, pagine 424, 18,90) Gangemi inquadra, attraverso la storia di una famiglia, la vicenda complessiva dell’immigrazione italiana negli Stati Uniti, quando la povertà dei nostri antenati era un gigantesco push factor, come si dice ora per gli africani, il cui oceano è il Mediterraneo. Il pull factor, la calamita, era un sogno ancestrale prima ancora che americano: scrostarsi di dosso il destino, se non per sé, per le generazioni successive. Un tema ricorrente in Gangemi, splendidamente dipanato nel suo libro precedente La signora di Ellis Island (Piemme, 2019) e qui ripreso con altrettanto lirismo duro, o con un dirty realism che ricorda John Fante.
Capita dunque che Masi Rubbini, bracciante delle Madonie, porti moglie e figli in Louisiana per sottrarli alla schiavitù della terra. Ma siamo nel 1911 e l’America non è affatto generosa, «troppo la vita somigliava a quella scansata in Sicilia». La moglie si ritrova a raccogliere cotone, lui e il figlio maggiore a costruire ferrovie. Fatica, miseria, umiliazioni. E il razzismo che spinge gli italiani del Sud nella terra di nessuno della considerazione umana: «Ci ingiuriano negri perché siamo il popolo di mezzo, né bianchi e né neri». Coi neri scatta la solidarietà degli afflitti, che sarà però fatale a Masi e alla moglie. Le pagine sul loro linciaggio sono pugnalate, quindi vera letteratura. Realistica anche sul piano storico: successe a undici italiani innocenti di finire impiccati a New Orleans, nel 1891.
Che cosa resta dei figli dopo una perdita del genere? Ecco, tra i mille spunti del libro c’è il retaggio della violenza, la lotta dei superstiti per non esserne a loro volta risucchiati. Non ci riesce il grande, Tony, sconvolto per sempre da quei corpi penzolanti, risparmiati al fratello Luigi. È il bivio dei due destini, che scelgono la ribellione, ma nei modi più distanti. Uno l’anarchia, la lotta mortale all’America che tutto promette e tutto toglie in un istante. L’altro la musica, nella modalità altrettanto anarchica, ma pacifica del jazz. Gangemi riporta alla luce il ruolo dei siciliani — nel 1910 ce n’erano 12 mila tra i 90 mila abitanti di New Orleans — nella nascita di un genere diventato arte a sé, quella di fondere allegria e disperazione nella frenesia dell’improvvisazione. Un miracolo frutto degli spiritual dei neri, ma anche della contaminazione con sonorità e strumenti a fiato delle bande siciliane.
È pure un romanzo storico, Il Popolo di mezzo. Tocca tutta l’italianità d’America dei primi decenni del Novecento in ogni suo estremo, l’eroismo del poliziotto Joe Petrosino e l’efferatezza dei criminali della Mano nera; la fatica che restituì l’onore a una comunità e la strage di Wall Street nel 1920, con il ciabattino romagnolo Mario Buda a precorrere Bin Laden, altro episodio che incolla alle pagine.
Era atteso e non tradisce il ritorno di Gangemi, bravo Raffaele Nigro a candidarlo allo Strega. Perché alla fine il popolo di mezzo siamo noi, noi che siamo rimasti, noi che siamo venuti dopo. Noi che diamo (forse) senso a tanti sacrifici.