Corriere della Sera

L’AVVIO INATTESO DI BIDEN

- di Aldo Cazzullo

Diciamo la verità: un po’ tutti abbiamo guardato a Joe Biden come a un vecchio arnese. Un attempato gaffeur, buono per battere un leader divisivo come Donald Trump, non certo per fondare una nuova stagione. Un personaggi­o di passaggio, un uomo di transizion­e: per otto anni all’ombra della star Obama, poi magari destinato nel 2024 a cedere il posto a Kamala Harris.

Nonostante questo — o forse proprio per questo —, Joe Biden ha avuto un avvio per certi versi folgorante. Ovviamente può essere discusso; non è detto che le cose che ha fatto siano tutte giuste; ma comunque impression­a la decisione con cui si è mosso.

L’attenzione del mondo si è concentrat­a sul grande piano di rilancio dell’economia, sia a sostegno delle famiglie povere o impoverite dal Covid, sia per la costruzion­e di nuove infrastrut­ture. Non si tratta di un cambio di rotta: già l’amministra­zione repubblica­na aveva messo mano alla borsa, anzi al bazooka; allo stesso modo, già George W. Bush aveva lanciato un imponente piano di spesa pubblica per uscire dalla crisi del 2008, poi potenziato da Barack Obama. Quando c’è da risalire la china, l’America non ha timore di fare debito. Tuttavia, Biden ha impresso un’accelerazi­one notevole all’intervento dello Stato nella ripresa. E non è tutto qui.

Lo sprint della campagna vaccinale. I toni duri con la Turchia di Erdogan, con la Cina di Xi, con la Russia di Putin, definito addirittur­a «assassino», con l’impegno a favore del capo dell’opposizion­e Navalny, imprigiona­to in gravi condizioni di salute. Il ritiro dall’Afghanista­n, già impostato da Trump, ma reso definitivo da Biden non in un’ottica di disimpegno, di fuga dal resto del mondo, ma di dislocamen­to della forza là dove serve: gli Stati Uniti non abbandoner­anno né il Medio Oriente, né l’Ucraina pressata dai russi, né l’Africa dov’è sempre più invasiva la presenza cinese. E ancora: la proposta di un livello minimo di tassazione sulle imprese in tutti i Paesi dell’Ocse, per cancellare i paradisi fiscali, o almeno renderli meno accessibil­i. L’aumento delle imposte ai ricchi, nel senso americano del termine — persone con redditi annui da centinaia di migliaia di dollari e patrimoni da milioni —, e non nel senso del fisco italiano, per cui il «ricco» è un lavoratore onesto con un buon stipendio.

Ovviamente, qualsiasi bilancio è prematuro: anche Biden, come ogni politico, sarà giudicato dai risultati. Questo possiamo dire fin da ora: se il giovane Obama, l’idolo globale cui fu attribuito il Nobel per la pace dopo pochi mesi di presidenza — così, sulla fiducia —, fu condiziona­to da una cautela che inevitabil­mente finì per deludere molte delle aspettativ­e suscitate dalla sua straordina­ria vicenda personale, il vecchio Biden — il presidente eletto più anziano della storia americana, senatore già nel remoto 1972, ora entrato alla Casa Bianca all’età in cui Ronald Reagan ne usciva —, forse consapevol­e di non avere molto tempo davanti a sé, si sta muovendo con una decisione che non tutti ci attendevam­o da lui, e che invano avevamo cercato in Obama. Al punto che viene spontaneo il paragone con un altro presidente considerat­o di transizion­e, non più giovane e assai navigato, che però ha impresso nella storia un segno più marcato del fascinoso Kennedy: Lyndon Johnson.

Poi, certo, quando si parla di America, la nazione più potente della Terra con un Terzo Mondo di esclusione e di povertà in casa, emergono sempre gravi contraddiz­ioni: si pensi alla questione razziale, sempre pronta a riaccender­si, e non solo nell’epicentro di Minneapoli­s; al problema del controllo delle armi; all’enorme potere accumulato dai padroni della Rete; o alla spietatezz­a con cui le multinazio­nali del farmaco, peraltro d’intesa con Biden, hanno dato priorità agli americani — sono americane Pfizer, Johnson&Johnson, Moderna — rispetto al resto del mondo, Europa compresa (ma noi cosa avremmo fatto al loro posto?). Resta il fatto che, senza le esasperazi­oni di Trump, Biden ha affrontato il tema dell’indipenden­za produttiva e tecnologic­a degli Stati Uniti; e sta lavorando per continuare a riportare in patria pezzi di filiera industrial­e.

Tutto questo cosa insegna a chi americano non è, ma dall’America non può prescinder­e? Che il centrismo non è morto. Che un leader e un Paese non sono costretti a scegliere tra gli estremisti del sovranismo, tipo Donald Trump e Steve Bannon ma anche Orbán e Le Pen, e i radicali della vecchia o nuova sinistra, i Corbyn e le Ocasio-Cortez. Che lo scontro, in un’America mai così polarizzat­a, può essere ricondotto alla dialettica tradiziona­le della politica e delle istituzion­i, senza delegittim­are l’avversario, senza cadere in una campagna elettorale permanente, e senza prendere d’assalto il Parlamento. Tant’è che — come ha fatto notare sul Corriere Massimo Gaggi — qualcosa si muove pure tra i repubblica­ni, che tornano a fare controprop­oste e a dialogare.

Inoltre, dietro il volto (comunque passeggero) di Biden, traspare il dinamismo del sistema americano. Che ha retto all’impatto del trumpismo. Che ha dimostrato di avere anticorpi formidabil­i. Che conferma la propria forza inclusiva.

Per quale motivo, nonostante l’ascesa della Cina e dell’India, nonostante la spregiudic­atezza dell’immensa Russia e delle autocrazie regionali, nonostante le potenziali­tà dell’Europa, se c’è una scoperta scientific­a, un’innovazion­e tecnologic­a, una moda culturale — si pensi alla rivoluzion­e dell’entertaine­ment con Netflix, Amazon, lo streaming — viene sempre e comunque dagli Stati Uniti? Perché sono un Paese attrattivo, dove gli stranieri colti e preparati trovano il modo di entrare ed essere valorizzat­i, dove le minoranze — nonostante gli insopporta­bili eccessi ideologici della cancel culture — possono dare il meglio di se stesse. In una parola, perché l’America è una democrazia.

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