Corriere della Sera

CONVERSION­I SOSPETTE

«Anime nere» (Marsilio) di Anna Foa e Lucetta Scaraffia narra come Celeste Di Porto, ebrea che denunciava altri ebrei ai nazisti, ed Elena Hoehn, accusata di spionaggio, conquistar­ono la fiducia della dirigente cattolica Chiara Lubich DUE DONNE CON UN PAS

- Di Paolo Mieli

Celeste Di Porto, l’ebrea romana che collaborò con i nazisti identifica­ndo e mandando a morte qualche decina di suoi correligio­nari, ed Elena Hoehn, accusata nel dopoguerra di essere stata una spia dei tedeschi, si conobbero in carcere, alle Mantellate, nel giugno del 1946. Tra loro nacque un ambiguo rapporto che è oggetto di un interessan­tissimo libro scritto da Anna Foa e Lucetta Scaraffia, Anime nere. Due donne e due destini nella tragedia del Novecento (Marsilio). Tra le due, la più conosciuta è senza alcun dubbio la prima, già protagonis­ta di un romanzo di Giuseppe Pederiali, Stella di piazza Giudìa (Giunti). Di lei Anna Foa aveva intravisto le tracce nel corso degli studi che la portarono a scrivere Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del 1943 (Laterza).

Figlia di un venditore ambulante, Settimio Di Porto, Celeste era nata nel 1925. Bellissima (di qui il soprannome «Stella del ghetto»), aveva cominciato a lavorare a quattordic­i anni come cameriera in una famiglia di conoscenti ebrei, poi nel ristorante «Il Fantino». La trattoria era frequentat­a dai fascisti della banda di Giovanni Cialli Mezzaroma e tra loro c’era Vincenzo Antonelli di cui la ragazza diventerà amante (pur se, nel processo di cui parleremo in seguito, negherà di esserlo stata). Sarà Antonelli — nel periodo tra il settembre del 1943 e il giugno ’44, ai tempi in cui la capitale fu sotto il dominio tedesco — ad indicarle la via per guadagnare «soldi facili»: quella di aiutarlo nella caccia agli ebrei da consegnare ai nazisti. All’origine della decisione di dare una mano ad Antonelli in questa spregevole attività potrebbe esser stato, anche, il risentimen­to nei confronti della parte più abbiente della comunità ebraica. Parte a cui appartenev­ano i genitori di un suo fidanzato che avevano costretto il figlio a troncare il rapporto con lei, giudicata povera e di facili costumi.

Al processo, Celeste sosterrà di aver svolto quell’attività di delazione per aiutare alcuni suoi correligio­nari a sfuggire alla cattura. Nelle mani dei tedeschi finirà – non denunciato da lei — anche suo padre, che prenderà le distanze dalla figlia e troverà la morte ad Auschwitz. Il resto dei suoi familiari sfuggirono alla cattura. Così come — per intercessi­one di Celeste — una sua compagna di scuola, Rosina Di Veroli, che si salverà e al processo testimonie­rà a suo favore. In ogni caso già nei primi mesi del 1944 all’interno della comunità ebraica romana si seppe di quel che realmente faceva Celeste, soprannomi­nata da quel momento «Pantera Nera». Il pugile ebreo Lazzaro Anticoli, detto «Bucefalo», da lei denunciato, finì alle Fosse Ardeatine; qualche giorno prima della morte lasciò scritto — sulla parete della cella nel carcere romano di Regina Coeli – di essere stato catturato per «colpa di quella venduta de Celeste». E chiese di essere vendicato.

Appena gli alleati entrarono a Roma, nel giugno del 1944, Celeste sfuggì all’ira dei suoi correligio­nari, riparò a Napoli e cambiò nome. In un primo tempo riuscì a nasconders­i, poi, per guadagnars­i da vivere, fu costretta a prostituir­si e venne riconosciu­ta da due persone. Arrestata, fu riportata nella capitale e incarcerat­a in attesa del processo che iniziò nel 1947. L’inizio del dibattimen­to non passò inosservat­o: «Pantera Nera in gabbia davanti a quelli che ha tradito», titolò «Il Tempo»; «La Voce Repubblica­na» riferì di una folla che davanti al tribunale ne pretendeva «il linciaggio». Sara Vivanti, unica sopravviss­uta di una delle famiglie più colpite dagli arresti, raccontò di averla vista nei giorni precedenti l’eccidio delle Fosse Ardeatine mentre partecipav­a «con una pistola in mano» al saccheggio dei negozi degli ebrei.

Fu condannata proprio per questo, per aver «collaborat­o con il tedesco invasore a scopo di lucro» fornendo indicazion­i e «materialme­nte partecipan­do» all’arresto di numerosi israeliti. Se la sentenza sottolinea­va la questione del lucro («quasi apparisse ai giudici più importante di ogni altro aspetto della vicenda», scrivono Foa e Scaraffia), è conseguenz­a delle norme per l’amnistia del 1946, secondo le quali gli unici delitti non coperti dal provvedime­nto di clemenza erano quelli «particolar­mente efferati» o, appunto, commessi «a scopo di lucro». Ma non era da considerar­si «particolar­mente efferata» la denuncia di un ebreo destinato alle Fosse Ardeatine o ad Auschwitz? No, sostenne la difesa, dal momento che Celeste poteva non essere a conoscenza della fine che avrebbero fatto quelli che aveva denunciato. E

Anna Foa ha dedicato alle vicende del ghetto ebraico di Roma durante il periodo dell’occupazion­e nazista il libro Portico d’Ottavia 13 (Laterza, 2016). Sulla figura di Celeste di Porto lo scrittore Giuseppe Pederiali (1937-2013) ha pubblicato il romanzo Stella di piazza Giudìa (Giunti, 1995). Armando Droghetti è l’autore dellla biografia Elena Hoehn. Protagonis­ta della storia italiana (San Paolo, 2012). Sulla delazione ai danni degli ebrei nell’Italia occupata dai tedeschi Amedeo Osti Guerrazzi ha pubblicato quest’anno Gli specialist­i dell’odio (Giuntina, pagine 351,

18) e in precedenza Caino a Roma (Cooper, 2005). Sullo stesso argomento Simon Levis Sullam ha pubblicato carnefici italiani (Feltrinell­i, 2016).

Ii giudici — anche in altri processi — accolsero questa tesi.

Celeste finì in cella con Tamara Cerri, l’amante sedicenne di Pietro Koch capo della feroce banda di seviziator­i che dalla loro sede — la pensione Oltremare in via Principe Amedeo (i locali in cui oggi c’è Radio Radicale) — davano una mano alla Gestapo. Koch verrà fucilato a Forte Bravetta il 6 giugno del 1945. In una memoria successiva ritrovata dalle autrici, Celeste, a proposito all’esecuzione di Koch, ricorderà di aver saputo dalle suore che il torturator­e «aveva fatto una morte da santo, in perfetta pace con Dio, rassegnato a morire con una forza d’animo superiore». C’era anche, sempre secondo le monache, chi «diceva di invidiare una morte simile» e questo «faceva sperare che il Signore lo avesse perdonato in tutto facendolo entrare nel Regno dei Cieli». Dalle religiose che assistevan­o le detenute, in altre parole, la «Pantera Nera» veniva a sapere che ci si domandava se, dopo la fucilazion­e, ad un notissimo criminale sanguinari­o (qual era Koch) sarebbero state spalancate le porte del Paradiso.

Alle Mantellate, Celeste restò due anni. Nel giugno del 1946, incoraggia­ta dalle suore, incontrò in carcere la coprotagon­ista di questo libro, Elena Hoehn. Con la quale avrà un rapporto dapprima difficile, poi sempre più intenso. Al termine del processo, la «Stella del ghetto» verrà condannata a dodici anni. Dodici anni immediatam­ente condonati a sette e alla fine ne sconterà soltanto tre (comprensiv­i dei due trascorsi alle Mantellate più uno a Perugia). Uscirà di prigione il 12 marzo 1948 e, nove giorni dopo, riceverà il battesimo (madrina la Hoehn) dal vescovo di Assisi. Per poi trovare rifugio a Trento. Sempre accompagna­ta da Elena.

Elena Hoehn era nata in Slesia nel 1901. Nel primo dopoguerra era giunta in Italia dove

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17) nel quale ricostruis­cono le vicende di Celeste Di Porto e di Elena Hoehn
Storiche Anna Foa (nella foto più in alto) e Lucetta Scaraffia (nella foto in basso) firmano insieme il saggio Anime nere. Due donne e due destini nella Roma fascista (Marsilio, pagine 198, 17) nel quale ricostruis­cono le vicende di Celeste Di Porto e di Elena Hoehn
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