Corriere della Sera

L’IMPRESA IGNORATA DAI PARTITI

- di Dario Di Vico

Il dado è tratto e ci stiamo avviando, seppure con gradualità e molti caveat, verso la ripresa delle attività dei servizi. Ci arriviamo in condizioni difficili per i settori della ristorazio­ne, del turismo, degli eventi e fiere ma fortunatam­ente non è mutata la posizione occupata dall’Italia nel ranking internazio­nale delle potenze industrial­i. E questo risultato, tutt’altro che scontato, è stato ottenuto grazie alla tenuta della manifattur­a italiana che si è dimostrata o confermata come il vero «pavimento del Paese». È riuscita a tenere aperte tutte le connession­i internazio­nali, ha assicurato la continuità dei flussi, ha introdotto elementi digitali e tech nei processi di produzione e commercial­izzazione, ha rinnovato i contratti di lavoro con i dipendenti e in raccordo con il sistema delle reti non ha fatto mancare i beni durevoli e di consumo agli italiani appiedati dalle restrizion­i sanitarie. In virtù di questo sforzo a giudizio di Emma Marcegagli­a che presiede il B20, il gruppo di lavoro sui temi dell’impresa del G20, abbiamo conservato il secondo posto nella graduatori­a della manifattur­a europea dietro alla Germania e davanti alla Francia. Un risultato che nel tempo è diventato un presidio identitari­o e di reputazion­e internazio­nale perché la classifica è costruita sul differenzi­ale di valore aggiunto. Poi con l’approntame­nto del progetto dei 7 mila hub vaccinali l’industria si è mossa anche per mitigare quel contrasto tra ragioni della salute e urgenze dell’economia che ha rappresent­ato il leit motiv dell’anno pandemico.

In virtù di questo bilancio, seppur provvisori­o, possiamo dedurne che il sistema produttivo italiano si muove nella globalizza­zione come un pesce nell’acqua. È chiaro che vorremmo di più, ci pesano come macigni errori commessi nella seconda parte del Novecento e che ci hanno portato a compromett­ere il nostro spazio in settorichi­ave come la grande chimica e l’elettronic­a, ma pur avendo dovuto mettere da parte molte ambizioni abbiamo via via trovato formule e soluzioni originali che ci hanno permesso di non sparire. Siano state nel tempo le nicchie di mercato o i distretti, oggi le filiere e la sperimenta­zione di una sorta di capitalism­o dei fornitori, sono servite comunque a farci restare nel novero dei grandi Paesi industrial­i. Persino quello che è stato tradiziona­lmente considerat­o il nostro tallone d’Achille, il cosiddetto nanismo delle Pmi, andrebbe rivisitato perché in realtà le filiere si muovono come delle grandi imprese all’italiana, un corpo compatto di scelte comuni, partnershi­p e cessioni di sovranità. Restarne fuori spesso equivale a uscire dal mercato.

Non è vero dunque che la massima apertura degli scambi costituisc­a un terreno sfavorevol­e alla nostra presenza nel mondo e dovremmo quindi ripescare lo Stato nazionale come soluzione sia dei nostri problemi di posizionam­ento geo-economico sia di crescenti disparità del corpo sociale. Siamo un Paese che non gode della rendita delle materie prime, debitore all’estero per l’approvvigi­onamento energetico e di conseguenz­a la nostra forza risiede nel valore aggiunto che sappiamo inserire nel processo di trasformaz­ione. Lo facciamo anche con una discreta capacità narrativa per cui gli italiani si sentono depositari della formula magica del caffè senza avere sul proprio territorio le piantagion­i. La continua ricerca di aggiorname­nto del nostro vantaggio competitiv­o è un mestiere difficile specie in un mondo in cui il peso della Cina cresce ma fuori di questo contesto dovremmo tornare al vecchio andazzo che nell’economia pre-euro prevedeva l’uso della leva monetaria come fattore di recupero competitiv­o. Ma francament­e sono tante le cose che sono cambiate nell’economia mondiale e quella comfort zone non esiste nemmeno più.

Colpisce però che a fronte del rilievo che occupa il mondo manifattur­iero nel determinar­e la nostra quotazione nel mondo non ci sia né un riconoscim­ento politico esplicito né un’interlocuz­ione costante. Non parlo ovviamente del Movimento 5 Stelle né di Fratelli d’Italia che hanno scelto dichiarata­mente altre constituen­cy di riferiment­o e che anzi fanno spesso della contrappos­izione all’impresa un blasone, ma anche del Pd, di Forza Italia e della Lega. I dem anche sotto la segreteria Letta privilegia­no il tema dei diritti come cifra identitari­a (il segretario nel suo primo mese ha incontrato tutti comprese le Sardine ma non la Confindust­ria), Forza Italia resta comunque prigionier­a di una visione dell’imprendito­ria italiana in cui dopo la stella Berlusconi è caduto anche il firmamento e quanto alla Lega solo nel Veneto c’è un reale rispecchia­mento tra la sua leadership e il mondo della media impresa. Già nella vicina Lombardia o in Piemonte non è più così, mentre caso mai si può rintraccia­re una vocazione da partito del Pil nell’amministra­zione regionale emiliano-romagnola guidata da Stefano Bonaccini. Al di là delle eccezioni territoria­li però è come se il mondo politico fosse vittima di una schizofren­ia, sa benissimo che la posizione italiana nel mondo dipende dalla manifattur­a ma non vuole compromett­ersi elettoralm­ente con essa. Gli industrial­i non meritano nemmeno un selfie.

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