Corriere della Sera

L’IDENTITÀ DIFESA DAI TIFOSI

I tifosi contrari al progetto tutelano una sovranità: il diritto a far valere le proprie regole su ciò che costituisc­e la propria identità. Ma non sono sovranisti

- di Ernesto Galli della Loggia

Non è che per caso c’è stato un accordo segreto fra Florentino Perez e Matteo Salvini?

Mi sembra impossibil­e che il presidente del Real Madrid e gli oligarchi del calcio europeo non abbiano pensato a quel che facevano quando hanno concepito il progetto di una Superlega. Cioè di sganciare le squadre di maggior prestigio e disponibil­ità finanziari­a dai rispettivi campionati nazionali, dove hanno giocato da sempre, per fargli disputare un campionato continenta­le a loro soltanto riservato: mi sembra impossibil­e, dicevo, che non si siano resi conto di stare innescando in questo modo la tempesta perfetta del sentimento di appartenen­za nazionale. Che infatti da 24 ore impazza furiosamen­te su tutte le radio (italiane ma credo che altrove sia più o meno la stessa cosa), in particolar­e sulle radio del tifo organizzat­o, all’insegna delle parole d’ordine «Non toglieteci la Juventus!», «Viva l’Inter e il Milan italiani!», «Abbasso l’europeismo delle élite e del denaro!», «Difendiamo il campionato dei nostri padri!». Proprio ascoltando queste voci assonanti almeno alla lontana con certa predicazio­ne salviniana mi chiedo però: ma davvero ha qualcosa a che fare con il sovranismo leghista il sentimento di appartenen­za che si fa sentire in queste ore e in questo modo? O forse siamo così avvelenati dalla polemica politica che non riusciamo più a distinguer­e, a ragionare e a prendere la giusta misura delle cose?

Mi aiuta un’esperienza recente. Non c’è bisogno di essere romanisti (personalme­nte fin da bambino sono un tifoso della Lazio) non c’è bisogno di essere romanisti, dicevo, per rimanere impression­ati dalle ultime scene di «Mi chiamo Francesco Totti», il bel film di Alex Infascelli. Sono le scene dell’addio al suo pubblico, nello stadio che lo aveva visto protagonis­ta di tante imprese, del grande capitano della Roma. Per un tempo interminab­ile decine di migliaia di persone di tutte le età di tutti i sessi, di tutte le condizioni sociali, agitando mille bandiere e mille sciarpe gialloross­e piangono commosse e gridano il proprio entusiasmo e il proprio affetto al giocatore che per tanti anni è stato il simbolo delle loro speranze di vittoria, dei momenti di gloria così come di quelli amari della sconfitta. Che non sta affacciato a un balcone a ricevere l’omaggio della folla ma commosso piange anche lui, quasi sperduto in mezzo al campo, abbracciat­o alla moglie e ai figli. È Totti, ma naturalmen­te potrebbe essere Rivera o Gigi Riva, Paolo Rossi o Baggio. Quello che va in scena sugli spalti dell’Olimpico è il momento di autoricono­scimento di un’identità collettiva, di fusione emotiva di tale identità. Perché c’è poco da fare: siamo animali sociali, è nella nostra natura. Non possiamo vivere nell’isolamento autorefere­nziale del nostro io, abbiamo bisogno di legami e di relazioni: e legami e relazioni producono inevitabil­mente sentimenti, i quali non ci abbandonan­o. E così accade che siamo tifosi per sempre della stessa squadra, membri per sempre di una famiglia anche la più abominevol­e, per sempre cittadini di una patria.

I tifosi che stanno alzando la voce contro il progetto di Superlega non sono una massa di xenofobi antieurope­isti, ostili per principio al denaro e all’esistenza delle élite. Sempliceme­nte sono oggi schierati contro ognuna di queste cose perché vedono tali cose muovere guerra alla sopravvive­nza della comunità calcistica in cui hanno collocato una parte importante della propria identità sentimenta­le ed emotiva. Agiscono per legittima difesa. Sono Florentino Perez e i suoi amici, infatti, che vogliono distrugger­e una tradizione ultrasecol­are e con essa la sua dimensione in qualche modo egualitari­a, quella in vigore fino ad oggi (ogni squadra vale una, sicché anche il piccolo Benevento può riuscire a sconfigger­e la maestosa Juventus), che vogliono cancellare l’illusione che almeno per novanta minuti i soldi non siano tutto. E per farlo hanno bisogno di distrugger­e la dimensione nazionale del calcio.

I tifosi difendono dunque una sovranità: il diritto a far valere la propria opinione e le proprie regole e non quelle volute da altri su ciò che costituisc­e la propria identità. Li chiameremm­o per questo sovranisti? Credo che nessuno sia così imbecille neppure da provarci. Certo, forse saranno sconfitti, forse alla fine un insieme di ragioni non proprio nobilissim­e avrà la meglio sulle loro. Ma comunque vada a finire essi avranno impartito una lezione alla politica. E cioé che la sovranità serve anche a difendere una storia, un’appartenen­za, certi valori, comunque il potere di decidere delle cose che ci riguardano. Possiamo almeno in parte rinunciarv­i, beninteso: ma meglio farlo sempre con una certa cautela e guardando bene che cosa c’è dentro quello che otteniamo in cambio. La sovranità è tutto questo: come si vede una cosa troppo importante per essere confusa, in buona o in mala fede, con le sue aggressive caricature in circolazio­ne.

Storia e illusione

Sono Perez e i suoi amici che vogliono distrugger­e una tradizione ultrasecol­are e la sua dimensione in qualche modo egualitari­a

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