Corriere della Sera

Le immagini e la rabbia Così cambia per sempre la coscienza dell’America

Un verdetto obbligato che lascia spazio a un ricorso

- da New York Massimo Gaggi

La scena non solo tragica, ma trasformat­a dalla tecnologia delle videocamer­e e delle reti sociali in un caso mondiale, ha prodotto un caso giudiziari­o senza precedenti e addirittur­a surreale: senza paragoni non solo per la testimonia­nza filmata (tanti i precedenti, da quello di Rodney King, l’attivista nero di Los Angeles massacrato di botte nel 1991 da quattro agenti), ma anche per le immagini riprese da tutti gli angoli e in vari momenti, prima e dopo l’arresto di George Floyd, che hanno consentito a ognuno di noi di diventare giudice e hanno provocato un’onda di proteste e anche di violenze che ha condiziona­to il processo di Minneapoli­s. Surreale perché le immagini di un agente che tiene per oltre nove minuti il ginocchio sul collo di un uomo ammanettat­o e steso sull’asfalto anche dopo che George, morente, aveva perso conoscenza, davanti a una platea impotente di passanti che chiedono solo pietà, rimarranno per sempre impresse nella memoria e nella coscienza dell’America.

Il verdetto di colpevolez­za su tutti i capi d’imputazion­e, a partire dall’omicidio di secondo grado che comporta una pena fino a 40 anni di reclusione (praticamen­te un ergastolo, anche se la durata della detenzione verrà decisa successiva­mente dal giudice) è durissimo: uno di quei casi in cui si può parlare di «pena esemplare».

In una condizione così anomala ed estrema il giudice Peter Cahill ha tenuto la barra ferma andando fino in fondo, ignorando tutte le pressioni per rinviare il processo e trasferirl­o altrove in modo da sottrarlo alle emozioni estreme di queste settimane e respingend­o anche la richiesta di mistrial (annullamen­to del procedimen­to da ricomincia­re da capo con un’altra giuria). Richiesta ribadita dalla difesa di Derek Chauvin dopo la grave sortita della deputata democratic­a nera Maxine Waters che ha invitato le folle che da settimane protestano a Minneapoli­s e in tutta l’America creando forti preoccupaz­ioni per l’ordine pubblico, a comportars­i in modo ancor più duro, determinan­do (ma a destra la parola confrontat­ional è stata interpreta­ta come un invito alla violenza in un clima già surriscald­ato) in caso di assoluzion­e dell’agente sotto processo.

Cahill ha mostrato nervi d’acciaio soprattutt­o quando ha dovuto ammettere che l’intervento della Waters offriva buoni argomenti per la richiesta di annullamen­to della difesa, ma poi ha deciso comunque di tirare dritto. Probabilme­nte è stata la scelta giusta sia dal punto di vista della tenuta nervosa di un’America scossa dalle tensioni razziali che non avrebbe retto a un altro rinvio, sia da un punto di vista di sostanza della soluzione del caso: i fatti sono chiari, le immagini non lasciano dubbi e Chauvin, prima ancora che dalla giuria, è stato condannato dalla città (il municipio che ha riconosciu­to un indennizzo record di 27 milioni di dollari alla famiglia di Floyd) e dallo stesso capo della polizia di Minneapoli­s. Mentre nessuno dei 12 giurati sembra aver avuto esitazioni, vista la condannala­mpo, unanime.

Ma da dal punto di vista procedural­e del rispetto delle garanzie per l’accusato — un vanto del sistema giudiziari­o americano — quella del processo a Chauvin rimane una pagina a dir poco amara: tanti i fatti, dalle pressioni della piazza all’indennizzo alla famiglia Floyd deliberato all’inizio del processo, passando per l’intervento della Waters e le preghiere di Biden per un «verdetto equo», che possono essere usati dalla difesa per ricorrere contro la sentenza.

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Manette L’agente Derek Chauvin viene portato in carcere dopo il verdetto

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