Sulle tracce di Elena Ferrante Inchiesta nel cuore di Napoli
«Piacere, sono Elena Ferrante». Sulla pagina, la donna si presenta all’improvviso e chi sta leggendo ha un sobbalzo, perché è come incontrare un fantasma. Succede anche questo nel libro di Annamaria Guadagni dedicato alla scrittrice italiana più nota, e misteriosamente nascosta sotto un nome falso. La leggenda di Elena Ferrante (Garzanti) è un libro che parla di libri, anzi: che entra nei libri, li usa per vedere più lontano, e vi si aggrappa per non perderli. In particolare, è un’inchiesta letteraria sui contesti che hanno generato la quadrilogia de
L’amica geniale.
A un certo punto, dunque, seguendo la sua pista, muovendosi senza smarrirsi tra specchi e riflessi narrativi, Guadagni si imbatte in una donna che si chiama davvero in quel modo, le stringe la mano e le parla. Naturalmente è solo una banale omonimia, ma più che a un imprevisto somiglia a un segno premonitore. Subito dopo, ecco un’altra Elena Ferrante, sebbene non risulti tale all’anagrafe: viene dallo stesso rione della scrittrice famosa, ha la stessa età, ha conosciuto le stesse persone e ha letto gli stessi romanzi presi in prestito nella stessa biblioteca popolare, a cominciare da Piccole donne, la Bibbia di Lila e Lenù, le amiche geniali. E tanto per capire come funziona un’inchiesta letteraria, questa seconda Elena Ferrante viene trovata grazie a una foto ingiallita recuperata in un archivio. È la fine del libro? Abbiamo trovato un volto da assegnare al falso nome? No, siamo solo all’inizio di un viaggio dove realtà e immaginazione si confondono. E, se i nomi dicono poco, le identità personali dicono di moltitudini, rimandano a storie più vaste, sono fatte dei racconti che abbiamo ascoltato, delle pagine che abbiamo letto, degli amori che abbiamo vissuto e rubato. Quanto all’identità della misteriosa Elena, è fatta soltanto di carta, abita nel testo, dove la riconosciamo come una donna napoletana, mentre il suo nome di penna vola nell’immaginario dove si trasforma e assume forme diverse. In trent’anni, Elena Ferrante è stata molte cose ed è stata associata a figure diverse, raccogliendo suggestioni o indizi che portavano ad altre scrittrici, come Fabrizia Ramondino, e poi alla traduttrice Anita Raja o a suo marito, Domenico Starnone, entrato nell’Elenologia per le tante assonanze nelle storie narrate, nella lingua e nello stile. Potrebbe essere un uomo? Rispondendo a numerose domande — si ricorda in questo libro — la misteriosa autrice ha sempre respinto l’idea di «un’assolutezza femminile o maschile» in letteratura, dove tutto resta aperto. Ma l’Elenologia ci porta anche a Pisa, dove ai tempi de L’amica geniale studiavano non una — la storica Marcella Marmo, sempre più insofferente per il ruolo di ego-alter attribuitole dalle cronache ferrantiane — ma due «normaliste» napoletane: la seconda era Carla Melazzini, napoletana d’adozione e figura straordinaria, autoconfinatasi in periferia a fare la maestra di strada, tra i ragazzi difficili che la scuola scarta, e di cui qui meritoriamente si rinnova il ricordo.
Ciò che resta in fondo alla galleria delle Elene è l’idea che l’autrice sia un personaggio d’invenzione e basta, la denominazione di un’opera. Dunque il suo nome è molto importante, come è stato scelto? Oltre alla più nota derivazione, che fa discendere lo pseudonimo da Elsa Morante, il libro esplora una variante meno nota: lo stesso nome di penna fu infatti probabilmente usato da Elena Croce, convinta come il padre, che usava firmarsi don Ferrante, che «l’autore è l’opera stessa».
Annamaria Guadagni ha attraversato Napoli con la stessa leggerezza con cui Nanni Moretti attraversò Roma a bordo della sua Vespa, salendo e scendendo scale, scrutando fotogrammi, entrando e uscendo dalle pagine in un continuo attraversamento di soglie: maschile e femminile, passato e presente, realtà e finzione, carattere dei personaggi e quello di un’intera città. Il viaggio-inchiesta non poteva che partire dal Rione Luzzatti, dove Lila lanciava pietre e Lenù l’ammirava; dove i palazzi sono sempre «nudi e sgrugnati» e la fiction tv si confonde con i toni e i ritmi della quotidianità. Il libro percorre le molte Napoli della cronaca e della storia: quella della plebe «anarchica, ribelle e disperata»; quella dei turisti tentati da pizze fritte e babà annegati in bicchieri di plastica trasparente; quella della informalità urbana e sociale, da sempre contestata da alcuni ed esaltata da altri. L’autrice annota tutto con empatia e restituisce un quadro di rara compiutezza. Del resto, sa bene che «i luoghi reali competono malamente con il loro doppio immaginario», e sa ancora meglio che «chi vede certi angoli di Napoli per la prima volta da adulto non ce la può fare a incantarsene, a fare il salto e a trasformare la zucca in un cocchio d’oro».
Quanto a Elena Ferrante, ma questo Guadagni non lo scrive, probabilmente ha fatto la stessa fine di Wu Tao-tzu, il pittore più famoso della dinastia T’ang. La leggenda — anche in questo caso di leggenda si tratta — racconta che un giorno fu chiamato a decorare un enorme muro e che decise di raffigurare un parco attraversato da uno stretto sentiero. Gli amici dissero di averlo visto l’ultima volta proprio mentre si allontanava lungo il viottolo che stava dipingendo. Si voltò, sorrise, e sparì.
Curiosità
Sembra che lo stesso nome di penna sia stato usato da Elena Croce, figlia del filosofo