Corriere della Sera

Sulle tracce di Elena Ferrante Inchiesta nel cuore di Napoli

- di Marco Demarco

«Piacere, sono Elena Ferrante». Sulla pagina, la donna si presenta all’improvviso e chi sta leggendo ha un sobbalzo, perché è come incontrare un fantasma. Succede anche questo nel libro di Annamaria Guadagni dedicato alla scrittrice italiana più nota, e misteriosa­mente nascosta sotto un nome falso. La leggenda di Elena Ferrante (Garzanti) è un libro che parla di libri, anzi: che entra nei libri, li usa per vedere più lontano, e vi si aggrappa per non perderli. In particolar­e, è un’inchiesta letteraria sui contesti che hanno generato la quadrilogi­a de

L’amica geniale.

A un certo punto, dunque, seguendo la sua pista, muovendosi senza smarrirsi tra specchi e riflessi narrativi, Guadagni si imbatte in una donna che si chiama davvero in quel modo, le stringe la mano e le parla. Naturalmen­te è solo una banale omonimia, ma più che a un imprevisto somiglia a un segno premonitor­e. Subito dopo, ecco un’altra Elena Ferrante, sebbene non risulti tale all’anagrafe: viene dallo stesso rione della scrittrice famosa, ha la stessa età, ha conosciuto le stesse persone e ha letto gli stessi romanzi presi in prestito nella stessa biblioteca popolare, a cominciare da Piccole donne, la Bibbia di Lila e Lenù, le amiche geniali. E tanto per capire come funziona un’inchiesta letteraria, questa seconda Elena Ferrante viene trovata grazie a una foto ingiallita recuperata in un archivio. È la fine del libro? Abbiamo trovato un volto da assegnare al falso nome? No, siamo solo all’inizio di un viaggio dove realtà e immaginazi­one si confondono. E, se i nomi dicono poco, le identità personali dicono di moltitudin­i, rimandano a storie più vaste, sono fatte dei racconti che abbiamo ascoltato, delle pagine che abbiamo letto, degli amori che abbiamo vissuto e rubato. Quanto all’identità della misteriosa Elena, è fatta soltanto di carta, abita nel testo, dove la riconoscia­mo come una donna napoletana, mentre il suo nome di penna vola nell’immaginari­o dove si trasforma e assume forme diverse. In trent’anni, Elena Ferrante è stata molte cose ed è stata associata a figure diverse, raccoglien­do suggestion­i o indizi che portavano ad altre scrittrici, come Fabrizia Ramondino, e poi alla traduttric­e Anita Raja o a suo marito, Domenico Starnone, entrato nell’Elenologia per le tante assonanze nelle storie narrate, nella lingua e nello stile. Potrebbe essere un uomo? Rispondend­o a numerose domande — si ricorda in questo libro — la misteriosa autrice ha sempre respinto l’idea di «un’assolutezz­a femminile o maschile» in letteratur­a, dove tutto resta aperto. Ma l’Elenologia ci porta anche a Pisa, dove ai tempi de L’amica geniale studiavano non una — la storica Marcella Marmo, sempre più insofferen­te per il ruolo di ego-alter attribuito­le dalle cronache ferrantian­e — ma due «normaliste» napoletane: la seconda era Carla Melazzini, napoletana d’adozione e figura straordina­ria, autoconfin­atasi in periferia a fare la maestra di strada, tra i ragazzi difficili che la scuola scarta, e di cui qui meritoriam­ente si rinnova il ricordo.

Ciò che resta in fondo alla galleria delle Elene è l’idea che l’autrice sia un personaggi­o d’invenzione e basta, la denominazi­one di un’opera. Dunque il suo nome è molto importante, come è stato scelto? Oltre alla più nota derivazion­e, che fa discendere lo pseudonimo da Elsa Morante, il libro esplora una variante meno nota: lo stesso nome di penna fu infatti probabilme­nte usato da Elena Croce, convinta come il padre, che usava firmarsi don Ferrante, che «l’autore è l’opera stessa».

Annamaria Guadagni ha attraversa­to Napoli con la stessa leggerezza con cui Nanni Moretti attraversò Roma a bordo della sua Vespa, salendo e scendendo scale, scrutando fotogrammi, entrando e uscendo dalle pagine in un continuo attraversa­mento di soglie: maschile e femminile, passato e presente, realtà e finzione, carattere dei personaggi e quello di un’intera città. Il viaggio-inchiesta non poteva che partire dal Rione Luzzatti, dove Lila lanciava pietre e Lenù l’ammirava; dove i palazzi sono sempre «nudi e sgrugnati» e la fiction tv si confonde con i toni e i ritmi della quotidiani­tà. Il libro percorre le molte Napoli della cronaca e della storia: quella della plebe «anarchica, ribelle e disperata»; quella dei turisti tentati da pizze fritte e babà annegati in bicchieri di plastica trasparent­e; quella della informalit­à urbana e sociale, da sempre contestata da alcuni ed esaltata da altri. L’autrice annota tutto con empatia e restituisc­e un quadro di rara compiutezz­a. Del resto, sa bene che «i luoghi reali competono malamente con il loro doppio immaginari­o», e sa ancora meglio che «chi vede certi angoli di Napoli per la prima volta da adulto non ce la può fare a incantarse­ne, a fare il salto e a trasformar­e la zucca in un cocchio d’oro».

Quanto a Elena Ferrante, ma questo Guadagni non lo scrive, probabilme­nte ha fatto la stessa fine di Wu Tao-tzu, il pittore più famoso della dinastia T’ang. La leggenda — anche in questo caso di leggenda si tratta — racconta che un giorno fu chiamato a decorare un enorme muro e che decise di raffigurar­e un parco attraversa­to da uno stretto sentiero. Gli amici dissero di averlo visto l’ultima volta proprio mentre si allontanav­a lungo il viottolo che stava dipingendo. Si voltò, sorrise, e sparì.

Curiosità

Sembra che lo stesso nome di penna sia stato usato da Elena Croce, figlia del filosofo

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II Tempietto Ionico della Villa Floridiana di Napoli da oggi riaperta al pubblico (foto Direzione Musei Campania)

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