Corriere della Sera

D’ALEMA E IL VALORE (REALE) DEL LAVORO

- di Aldo Grasso

Com’è noto, la Feps, l’ente che racchiude le fondazioni progressis­te europee, ha chiesto a Massimo D’Alema di restituire oltre 500 mila euro: intascati illegittim­amente, secondo i vertici dell’organizzaz­ione. Senza entrare nel merito della questione (ci penseranno i tribunali), nella difesa dell’ex leader dei Ds ed ex presidente della Feps c’è una frase che merita attenzione: «Sono stato pagato meno del valore delle mie prestazion­i».

Niente conti della serva, ma solo un po’ di chiarezza: D’Alema prendeva 10.000 euro lordi al mese per conferenze e attività politica: «Nel 2016 andai a Città del Messico, Bruxelles, Teheran, Washington… Sei interventi nei primi tre mesi del 2016, 25 in tutto l’anno. Ho lavorato moltissimo». Diamogli credito.

Visto da una parte, il compenso di D’Alema è il gesto dell’ultimo comunista (valgo di più ma lo faccio per il bene dell’umanità). Visto dall’altra, è il gesto di un neo-liberista un po’ inesperto (incapace di monetizzar­e il suo valore di scambio).

Visto da noi: D’Alema è un neo-imprendito­re vitivinico­lo, come Al Bano e Bruno Vespa. Dicono che il suo sia un vino «de-territoria­lizzato» e «politicame­nte corretto», qualunque cosa significhi. Possiamo pagare le sue bottiglie (ordine minimo 250 euro) meno del loro valore d’uso? Così, tanto per degustare insieme quel che resta del comunismo.

L’ex leader

Compensi, polemiche e mercato: «Io, pagato meno di quanto meritassi»

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