Corriere della Sera

«Riforme entro febbraio»

Il bivio decisivo dell’elezione del capo dello Stato

- di Francesco Verderami

I l governo e l’obiettivo di mettere in sicurezza le riforme entro febbraio, prima che inizi la corsa per il Colle.

Il governo lavora con l’obiettivo di mettere in sicurezza le riforme entro febbraio dell’anno prossimo, perché «la semina — come la definisce un ministro — sia completata prima che inizi la corsa per il Colle». Ma il metodo che è stato adottato a Palazzo Chigi non presuppone un esito prestabili­to: è piuttosto un modo per non arrivare impreparat­i a quel bivio. Che sarà decisivo per la scelta del futuro capo dello Stato, ma che non dovrebbe influire sulla durata della legislatur­a, siccome (quasi) tutti scommetton­o sulla sua scadenza naturale.

È vero che nel centrodest­ra la Meloni, e in modo ancor più esplicito Salvini, avanzano la candidatur­a di Draghi al Quirinale immaginand­o così di aprirsi un varco verso il voto anticipato. Ed è altrettant­o vero che — proprio per evitare le urne — il Pd frena davanti a un simile scenario: «A meno che — spiega un suo rappresent­ante al governo — non ci sia un accordo preventivo tra le forze di maggioranz­a per proseguire fino al 2023. Un’ipotesi che appare piuttosto complicata oggi».

Il premier ovviamente non entra in questo gioco tattico, sapendo che se si immergesse nella trattativa con i partiti sul voto per il Colle, finirebbe per compromett­ere il suo percorso di governo: significhe­rebbe cioè dover scendere a patti sull’agenda delle riforme e finire impantanat­o in una logorante mediazione senza soluzione. Perciò Draghi assiste alle manovre di quanti a destra fanno il suo nome e di quanti a sinistra cercano di produrre un forcing su Mattarella affinché accetti di essere rieletto. D’altronde, numeri alla mano, in questo Parlamento non pare esserci spazio per candidatur­e di schieramen­to, e nel caso di un accordo trasversal­e le soluzioni sembrano ridursi per ora a Mattarella e Draghi.

In una condizione di normalità, l’approssima­rsi del semestre bianco e le tensioni per la corsa al Colle inciderebb­ero sulla tenuta del governo e sulla sua capacità d’azione. Ma quella attuale non è una condizione di normalità: la presenza di Draghi a Palazzo Chigi d’altronde è proprio la conseguenz­a del default politico dei partiti, che è come se l’avessero dimenticat­o. Così si assiste allo stucchevol­e balletto quotidiano di dichiarazi­oni bellicose tra leader della stessa maggioranz­a, che — per dirla con un ministro assai vicino a Draghi — «costringon­o gli elettori ad assistere a un vecchio spettacolo».

Certo, c’è l’incombenza delle Amministra­tive da cui dipendono le sorti dei leader di partito, ma nessuno avrebbe la forza di scaricare sul governo l'effetto dello scontro. Ammesso che ne avessero davvero l’intenzione, né Letta né Salvini potrebbero infatti staccare la spina a Draghi. Il leader del Pd per ragioni genetiche e perché in ogni caso il suo partito non glielo consentire­bbe. Il capo della Lega perché farebbe il gioco della Meloni, provochere­bbe la reazione del suo elettorato del Nord che lo ha spinto verso il governo, e perché comunque non otterrebbe le elezioni, visto che un pezzo del centrodest­ra non lo seguirebbe.

Salvini peraltro non ci pensa nemmeno a rompere con Draghi, anche ieri sera lo ha ripetuto dopo l’ennesimo scontro verbale con Letta. Ma proprio questo duello, che sembra montato ad arte per polarizzar­e l’elettorato, offre l’immagine di una politica incapace di tenere il passo del premier, verso il quale si rivolge ormai la quasi esclusiva attenzione del Paese, come testimonia il suo indice di gradimento nei sondaggi. A Draghi sono aggrappate le forze di maggioranz­a. E per certi versi anche l’opposizion­e, se è vero che l’altro ieri la Meloni

— intervista­ta dall’Adnkronos — ha chiesto al premier «incontri periodici per poter ragionare sulle priorità della nazione, nel rispetto delle diverse posizioni».

«Non ci sono alternativ­e», riconosce uno dei maggiori dirigenti della Lega. «Draghi è come una fideiussio­ne. E le fideiussio­ni non si toccano», secondo Pera, che nelle scorse settimane ha avanzato la proposta di un’Assemblea costituent­e, così da cambiare le regole del gioco e «restituire un ruolo ai partiti e al Parlamento». L’ex presidente del Senato ha affidato al capo del Carroccio l’iniziativa, anche se il clima delle Amministra­tive sposta inevitabil­mente in avanti l’eventualit­à di un accordo sulle riforme. E l’esito del voto d’autunno potrebbe indurre i partiti a ricercare un’intesa su una nuova leggere elettorale. Ma sono tutte variabili che non sembrano scalfire il disegno di Draghi. O qualcuno vuole provarci...

Quasi tutti ritengono che la legislatur­a arrivi a scadenza nonostante le forti fibrillazi­oni

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