«Riforme entro febbraio»
Il bivio decisivo dell’elezione del capo dello Stato
I l governo e l’obiettivo di mettere in sicurezza le riforme entro febbraio, prima che inizi la corsa per il Colle.
Il governo lavora con l’obiettivo di mettere in sicurezza le riforme entro febbraio dell’anno prossimo, perché «la semina — come la definisce un ministro — sia completata prima che inizi la corsa per il Colle». Ma il metodo che è stato adottato a Palazzo Chigi non presuppone un esito prestabilito: è piuttosto un modo per non arrivare impreparati a quel bivio. Che sarà decisivo per la scelta del futuro capo dello Stato, ma che non dovrebbe influire sulla durata della legislatura, siccome (quasi) tutti scommettono sulla sua scadenza naturale.
È vero che nel centrodestra la Meloni, e in modo ancor più esplicito Salvini, avanzano la candidatura di Draghi al Quirinale immaginando così di aprirsi un varco verso il voto anticipato. Ed è altrettanto vero che — proprio per evitare le urne — il Pd frena davanti a un simile scenario: «A meno che — spiega un suo rappresentante al governo — non ci sia un accordo preventivo tra le forze di maggioranza per proseguire fino al 2023. Un’ipotesi che appare piuttosto complicata oggi».
Il premier ovviamente non entra in questo gioco tattico, sapendo che se si immergesse nella trattativa con i partiti sul voto per il Colle, finirebbe per compromettere il suo percorso di governo: significherebbe cioè dover scendere a patti sull’agenda delle riforme e finire impantanato in una logorante mediazione senza soluzione. Perciò Draghi assiste alle manovre di quanti a destra fanno il suo nome e di quanti a sinistra cercano di produrre un forcing su Mattarella affinché accetti di essere rieletto. D’altronde, numeri alla mano, in questo Parlamento non pare esserci spazio per candidature di schieramento, e nel caso di un accordo trasversale le soluzioni sembrano ridursi per ora a Mattarella e Draghi.
In una condizione di normalità, l’approssimarsi del semestre bianco e le tensioni per la corsa al Colle inciderebbero sulla tenuta del governo e sulla sua capacità d’azione. Ma quella attuale non è una condizione di normalità: la presenza di Draghi a Palazzo Chigi d’altronde è proprio la conseguenza del default politico dei partiti, che è come se l’avessero dimenticato. Così si assiste allo stucchevole balletto quotidiano di dichiarazioni bellicose tra leader della stessa maggioranza, che — per dirla con un ministro assai vicino a Draghi — «costringono gli elettori ad assistere a un vecchio spettacolo».
Certo, c’è l’incombenza delle Amministrative da cui dipendono le sorti dei leader di partito, ma nessuno avrebbe la forza di scaricare sul governo l'effetto dello scontro. Ammesso che ne avessero davvero l’intenzione, né Letta né Salvini potrebbero infatti staccare la spina a Draghi. Il leader del Pd per ragioni genetiche e perché in ogni caso il suo partito non glielo consentirebbe. Il capo della Lega perché farebbe il gioco della Meloni, provocherebbe la reazione del suo elettorato del Nord che lo ha spinto verso il governo, e perché comunque non otterrebbe le elezioni, visto che un pezzo del centrodestra non lo seguirebbe.
Salvini peraltro non ci pensa nemmeno a rompere con Draghi, anche ieri sera lo ha ripetuto dopo l’ennesimo scontro verbale con Letta. Ma proprio questo duello, che sembra montato ad arte per polarizzare l’elettorato, offre l’immagine di una politica incapace di tenere il passo del premier, verso il quale si rivolge ormai la quasi esclusiva attenzione del Paese, come testimonia il suo indice di gradimento nei sondaggi. A Draghi sono aggrappate le forze di maggioranza. E per certi versi anche l’opposizione, se è vero che l’altro ieri la Meloni
— intervistata dall’Adnkronos — ha chiesto al premier «incontri periodici per poter ragionare sulle priorità della nazione, nel rispetto delle diverse posizioni».
«Non ci sono alternative», riconosce uno dei maggiori dirigenti della Lega. «Draghi è come una fideiussione. E le fideiussioni non si toccano», secondo Pera, che nelle scorse settimane ha avanzato la proposta di un’Assemblea costituente, così da cambiare le regole del gioco e «restituire un ruolo ai partiti e al Parlamento». L’ex presidente del Senato ha affidato al capo del Carroccio l’iniziativa, anche se il clima delle Amministrative sposta inevitabilmente in avanti l’eventualità di un accordo sulle riforme. E l’esito del voto d’autunno potrebbe indurre i partiti a ricercare un’intesa su una nuova leggere elettorale. Ma sono tutte variabili che non sembrano scalfire il disegno di Draghi. O qualcuno vuole provarci...
Quasi tutti ritengono che la legislatura arrivi a scadenza nonostante le forti fibrillazioni