«Clima, non agire ci costerebbe caro: fino al 20 per cento del Pil globale»
Sharma, a capo della Cop26: l’Italia un esempio
Siamo alla sprint finale LONDRA verso la Cop26, la Conferenza Onu sul cambiamento climatico che si terrà a novembre a Glasgow: e a organizzarla congiuntamente ci sono la Gran Bretagna e l’Italia. Per questo il presidente della Cop26, il britannico Alok Sharma, è stato a Roma nei giorni scorsi, dove ha incontrato i ministri-chiave del governo Draghi assieme alle alte gerarchie vaticane.
«Voglio ringraziare per la grande accoglienza ricevuta — dice al Corriere —. La Green
Recovery è qualcosa su cui tutto il governo italiano è focalizzato: lo descriverei come un «filo verde» che corre attraverso tutti i ministeri. Abbiamo lavorato per un intero anno col governo italiano: nel 2021 abbiamo rispettivamente le presidenze del G7 e del G20, quindi stiamo lavorando assieme per coordinare le discussioni che abbiamo con i singoli Paesi. Vogliamo assicurare che questi due eventi siano come un ponte verso la Cop26».
Cosa puntate a ottenere a Glasgow?
«La possibilità di dire collettivamente che abbiamo mantenuto l’obiettivo di contenere l’aumento delle temperature entro 1,5 gradi: questo è ciò che il mondo ha concordato al summit di Parigi nel 2015 e dobbiamo far sì che ogni Paese sia considerato responsabile per raggiungere questo traguardo».
Quali saranno i prossimi passi in questa direzione?
«Chiedo innanzitutto ai Paesi nel mondo di presentare un piano per arrivare alle emissioni zero entro il 2050. Quando abbiamo cominciato il cammino verso la Cop26, meno del 30 per cento del Pil globale era impegnato alle emissioni zero: ora siamo al 70 per cento e vogliamo spingerci oltre. Intanto vogliamo vedere piani a breve termine: la buona notizia è che tutti i Paesi del G7 hanno stabilito un obiettivo di riduzione delle emissioni per il 2030 che li mette sulla strada del 2050: ma abbiamo bisogno che tutti i Paesi si facciano avanti e mostrino ambizione, particolarmente i grandi inquinatori».
C’è infatti il problema di coinvolgere i Paesi in via di sviluppo.
«I Paesi sviluppati hanno concordato che avrebbero assicurato cento miliardi l’anno per sostenere i Paesi in via di sviluppo sul clima. Quando i Paesi in via di sviluppo presentano i piani per la riduzione delle emissioni cercano il sostegno finanziario dei Paesi sviluppati e degli investitori privati: quindi prima dobbiamo assicurare quei 100 miliardi, poi dobbiamo presentare un piano ambizioso di “finanza verde”. Il punto è come aiutare quei Paesi nella transizione alle energie pulite: dobbiamo assicurare che il denaro privato vada in energie pulite in quei Paesi e dobbiamo fornire il supporto tecnologico. Ma dobbiamo anche sostenere quei Paesi in modo che il settore privato sia in grado di investire lì».
La transizione ecologica ha un costo, che alla fine si scarica sui consumatori: sarà possibile persuadere l’opinione pubblica?
«Il prezzo dell’inazione è molto più alto di quello dell’azione: il costo del cambiamento climatico potrebbe essere fino al 20 per cento del Pil globale. In Gran Bretagna il costo degli interventi per il clima sarà dello 0,5 per cento del Pil: la ragione è che il prezzo delle tecnologie sta scendendo rapidamente, il solare è al 70 per cento meno costoso di un decennio fa. Certo, c’è un prezzo della transizione, ma i benefici economici sono maggiori: perché abbiamo l’opportunità di creare un nuovo tipo di economia, creare posti di lavoro “verdi”. Possiamo allo stesso tempo prenderci cura dell’ambiente e dell’economia»
L’ambiente è uno dei temi sui quali può riprendere la collaborazione fra Londra e l’Europa dopo la Brexit?
«Ma la Gran Bretagna è ancora parte dell’Europa, ci siamo molto affezionati! Sono molto soddisfatto del lavoro con gli europei e c’è un vero impegno da parte nostra a lavorare assieme: e la relazione con l’Italia è particolarmente vitale in quest’ottica».
Dobbiamo assicurare cento miliardi l’anno per sostenere i Paesi in via di sviluppo sul clima