Corriere della Sera

L’uomo Rai al comando «Tra moto ed elicotteri riusciamo a riprendere persino i capelli degli atleti»

Il regista Brunozzi: «Il Giro è il mio mal d’Africa»

- Di Lorenza Cerbini

Inumeri ci sono: due elicotteri, quattro moto in gara, quattro telecamere all’arrivo e 180 persone che ci girano intorno, lavorando con un unico fine, trasformar­e il Giro d’Italia in un evento globale che soddisfi il tifoso colombiano, tedesco, francese e australian­o. L’italiano? Forse il più difficile da accontenta­re, ma il Giro, si sa, è anche una questione di cuore.

C’è una carovana che si muove motu proprio all’interno di quella rosa: il team della Rai dove il visibile (giornalist­i, opinionist­i, motociclis­ti) è la punta dell’iceberg di un meccanismo complesso. «Si tira un respiro di sollievo solo a gara terminata», dice Stefano Brunozzi, il regista a capo della produzione internazio­nale. Un ruolo conquistat­o in undici anni di lavoro in cui il Giro è diventato il suo «mal d’Africa». «Esordio nel 2010. Dovevo partire per seguire i mondiali di calcio in

Sud Africa, ma rifiutai per un altro evento che non si sarebbe più ripetuto: il primo compleanno di mio figlio. E così fui spedito al Giro. Lo interpreta­i come una punizione, una trasferta lunga e impegnativ­a. Oggi, è una parte importante della mia vita».

Una carriera a tappe. «Partito come assistente, cresciuto come aiuto regista, quindi regista delle partenze e da cinque anni regista del segnale internazio­nale». Un’evoluzione che ha creato «dipendenza» nonostante che la corsa rosa sia «un mostro con un limite da superare ogni giorno; e quando torni a casa dopo un mese di frastornam­ento è come cadere nel silenzio». Frastornam­ento perché la Corsa Rosa i registi la vivono in cuffia. «Quaranta persone collegate e da coordinare», dice Brunozzi. Un’orchestra insomma.

Il Giro d’Italia non si inventa, ma è un evento che la Rai inizia a preparare «appena viene comunicato il percorso definitivo». Ci sono da individuar­e e curare gli aspetti di interesse geografico, storico e artistico. «Quest’anno abbiamo in scaletta oltre cento punti geografici per ogni tappa. In pratica, chi opera dall’elicottero sa che dovranno essere inquadrati quella chiesa, quel monumento, quella piazza». Ogni tappa diventa così «un libro da sfogliare. Una vita che nasce, ha una durata e una fine. Affascinan­te».

Il Giro della Rai ha un cuore, la regia mobile. «Almeno 50 monitor da controllar­e», dice Brunozzi. E come se ne esce fuori? «Accettando i consigli in un rapporto di collaboraz­ione naturale e sincera, ad esempio con i giornalist­i che conoscono i ciclisti e le loro astuzie».

Ai tempi di Adriano De Zan il gruppo visto dall’alto era una macchia di colore. Oggi c’è l’HD. «Quando cerchiamo un ciclista comunichia­mo con l’operatore dell’elicottero da cui parte un segnale in alta definizion­e che permette di vedere anche i capelli dell’atleta. Dall’inizio alla fine della gara seguo sei segnali, di cui quattro dalle moto. Anni fa se ne potevano vedere solo tre. La tensione era continua perché se la maglia rosa aveva un problema e in quel momento non era inquadrata non eravamo sulla notizia».

Una produzione democratic­a quella della Rai o prevale il cuore italico? «Quando mi siedo sono consapevol­e di lavorare per una platea internazio­nale. Nibali non viene inquadrato perché è siciliano, ma perché è un vero campione». La tappa più temuta di questo Giro? «Quella dello Zoncolan. Mi ha dato grandi soddisfazi­oni nel Giro di Froome e non vorrei sbagliare».

La «carovana»

Quaranta persone da coordinare in cuffia «La tappa più delicata sarà lo Zoncolan»

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In cabina di regia Stefano Brunozzi al lavoro durante una tappa: ci sono da controllar­e almeno 50 monitor. «Non ci interessia­mo solo della gara, abbiamo in scaletta oltre cento punti geografici per ogni tappa da inquadrare per interesse paesaggist­ico, storico o artistico»

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