QUANDO C’ERA LA FEBBRE DEL SABATO SERA
Negli anni 70 le strobo si illuminavano febbrilmente a suon di I will survive e Stayin’ alive. Poi sono passati, in un lampo, 50 anni di disco, house, techno, balli e sballi assortiti. Fino al febbraio del 2020. Da allora, se il sabato sera ti viene la febbre, c’è di che preoccuparsi. Rinchiusi in casa, detestando quelli del «però come si sta bene da soli», abbiamo compulsato termometri e saturimetri, facendo i conti con solitudine e ipocondria. Al più, accennando pateticamente una mossa alla Tony Manero, in qualche call alticcia. Questo weekend i più audaci possono derogare al coprifuoco delle 22 e arrivare fino a mezzanotte, addirittura. Basta partecipare all’Open day, gli AstraZeneca «party» indetti dalla Regione Lazio per compensare i danni del populismo sanitario, che ha consentito ai cittadini di questa regione di scegliersi il vaccino preferito, con la conseguenza di lasciare i frigoriferi pieni del poco amato siero di Oxford. Invece di fare un salto al Goa o al Qube, si va al Policlinico Umberto I o all’Hub Acea. I più trendy sceglieranno magari la Nuvola. Invece del Margarita, le Primule di Arcuri. Ci sarà da sgomitare, forse, come davanti ai guardaroba delle discoteche. Tutti in fila appassionatamente per farsi inoculare la speranza.
In verità, ci siamo quasi. I ristoranti sono aperti e ci stiamo riaffacciando nel mondo. Il coprifuoco, con il suo sgradevole etimo bellico, si allungherà di una o due ore. Ma probabilmente anche quando il Covid non ci sarà più non ci libereremo facilmente della cattività e del dolore dei lutti. Sopravvissuti al nostro Vietnam, rischiamo di restare chiusi nel silenzio catatonico di Birdy, il protagonista del film di Alan Parker. Il long Covid non è soltanto la scia persistente degli effetti fisici dell’infezione, è anche quel senso di disagio, al confine con la misantropia, che ci fa dire: aspettiamo ancora, si uscirà domani. O magari dopo.