Le vittime senza parenti «Sono tutti morti»
Alla camera mortuaria di Verbania non passa quasi nessuno I vicini di casa di Serena Cosentino, morta a 27 anni: «Temiamo che venga tutto dimenticato in fretta, non è giusto»
Alle grate metalliche del cortile hanno appeso una decina di lenzuola che adesso sono fradice di pioggia. L’obitorio è in uno spazio angusto al culmine di una strettoia dietro l’ospedale Castelli di Verbania, che già sembra mimetizzato tra palazzi anonimi di edilizia popolare. Dall’altra parte della strada c’è una vecchia casa colonica dalle mura scrostate e con le imposte chiuse. I teli bianchi fanno parte dell’opera di vigilanza, dovrebbero servire a tenere lontano gli sguardi dei curiosi e a proteggere il dolore dei familiari. Ma non ce n’è bisogno. Non passa quasi nessuno, a parte un matto che parla da solo.
«Sono tutti morti, chi vuoi che venga» dice un infermiere mentre fuma una sigaretta davanti all’ingresso. Solo gli amici, e pochi altri spinti nel caso migliore dalla pietà umana. La desolazione di una camera mortuaria deserta e dell’indifferenza che avvolge le povere vittime restituisce l’esatta misura della sentenza capitale che rappresenta la tragedia di domenica, con tre nuclei familiari completamente annientati, soccorritori che poco hanno potuto soccorrere, solo prendere atto dell’irreversibilità dell’accaduto. Tempo zero e nessuna speranza, se non la vita appesa a un filo di un bambino che se riuscirà a salvarsi sarà obbligato a riparare la sua vita altrove, lontano, in Israele.
«Almeno non crescerà in un Paese dove viene giù tutto e alla prima domenica di bel tempo muori perché volevi vedere il lago dall’alto». Aldo e Sara Fontanesi escono dalla camera mortuaria tenendosi stretti l’uno all’altro. Ci tengono a non definirsi amici, l’amicizia è qualcosa che si consolida nel tempo, e la loro vicina di pianerottolo Serena Cosentino era arrivata a Verbania a metà marzo, veniva dalla Calabria, e loro sono passati a darle un ultimo saluto anche perché hanno pensato che forse non sarebbe passato nessun altro. Il giorno dopo non appartiene mai ai ricordi della prima ora, ma alla rabbia, allo sgomento che portano queste morti senza alcun senso. «Chi le definisce una fatalità insulta la memoria delle vittime» dice Sara torcendosi le mani.
Passa un’altra coppia, amici di Vittorio Zorloni e della sua compagna Elisabetta, che con gli sposi promessi condividevano gli aperitivi sul muretto del condominio di Vedano Olona. Vogliono vedere, poi parlano con gli addetti del Servizio di onoranze funebri che hanno appena rivestito le salme con feretri meno improvvisati. E cambiano idea, meglio conservare il ricordo impresso nelle foto dei momenti spensierati. Anche loro non lasciano spazio agli aneddoti, ma a uno sfogo che quasi deriva dalla imme
desimazione, potevamo esserci noi, poteva succedere a chiunque. «Tanto lo sappiamo che questa cosa enorme verrà dimenticata in fretta, e in fondo lo capiamo, c’è tanta voglia di distrarsi dopo un anno passato in casa. Ma non è giusto».
Eppure, i segni di una implicita rimozione sono già percepibili, nei commenti dei pochi che si avventurano sul lungolago dopo l’acquazzone, si vede che era destino, quanta sfortuna, manca quello sgomento che si sentiva dopo tragedie simili ma più grandi, come se la caduta nel vuoto della funivia fosse un ponte Morandi di provincia, una tragedia minore e in definitiva poco visibile. Anche la sindaca di Stresa Marcella Severino ha avuto questo pensiero, durante una notte insonne, tre ore di dormiveglia con l’aiuto di una pasticca, e le immagini di quel prato nella testa. «Una scena impressionante, che non è giusto neanche descrivere. Non si dovrebbe indulgere nei particolari, e noi vogliamo tutelare in ogni modo le vittime e i loro cari. Ma non bisogna neppure dimenticare e mettersi alle spalle quel che è appena accaduto». Assicura che parteciperà a ogni funerale, ci saranno tante cerimonie, e anche questo inciderà sulla dispersione dell’onda emotiva, si è fatta promettere dalla Regione Piemonte che le spese di trasporto delle salme saranno a carico delle istituzioni, domani ci sarà una messa. «Ma di più non posso fare».
Nel tardo pomeriggio, alcuni uomini vestiti di nero si aggirano nel cortile interno dell’obitorio. Sono membri della comunità ebraica di Torino. Uno di loro ha in mano un sacchetto pieno di candele votive decorate con la stella di David. Si chiama Daniel Treves, ed è l’addetto alla purificazione dei corpi dei suoi confratelli deceduti. Accanto a lui c’è il console Avraham Eitan, appena giunto da Roma, che alza lo sguardo verso le nubi nere, con espressione perplessa. «C’era il sole, il periodo buio che ha vissuto tutto il mondo sta finendo, c’è voglia di ricominciare. E in un attimo la vita finisce. A volte, non c’è una spiegazione». Si ferma un’auto scura. A bordo, appena arrivati da Israele, ci sono i fratelli di Amit Biran e Tal Peleg. «Volete andare sul posto?» chiede loro il dirigente di polizia che li accompagna verso l’obitorio. Scuotono la testa, un diniego gentile. Vanno di fretta. Domani mattina ripartiranno con i corpi dei loro cinque congiunti. L’obitorio chiude. Qualche altro familiare chiede di restare all’interno dell’ospedale. Nel giorno delle bandiere a mezz’asta e delle campane a lutto, al centro del piazzale del Lido circondato da locali con denominazioni paradisiache, tra la stazione di partenza della funivia e il molo dove attraccano battelli turistici e scafi da copertina, qualcuno ha lasciato un lumino rosso, e due rose.