Corriere della Sera

LO STRANO METODO UNGHERESE

Giustizia I nomi delle trentanove personalit­à facenti parte della congrega sono coperti da segreto, ma è emerso che ne farebbero parte importanti giudici e avvocati, imprendito­ri e alti ufficiali

- di Paolo Mieli

Aseguito del monito — ieri a ventinove anni dall’uccisione di Giovanni Falcone, della moglie e degli agenti della scorta — diciamo meglio dell’allarme del presidente della Repubblica sulle liti che minano la credibilit­à della magistratu­ra, viene da domandarci: che fine ha fatto la «loggia Ungheria»? Stiamo parlando di quella quarantina di personaggi che — secondo le dichiarazi­oni rese dall’avvocato Piero Amara ai pm milanesi Paolo Storari e Laura Pedio nel dicembre del 2019 — avrebbero provocato, in associazio­ne tra loro, un qualche danno al corretto funzioname­nto del nostro sistema giudiziari­o e forse non solo a quello. I nomi dei trentanove sono ancora coperti da segreto, anche se da qualche spiffero abbiamo appreso che della congrega farebbero parte importanti magistrati, membri del Csm, avvocati di grido, imprendito­ri, alti ufficiali dei carabinier­i, il comandante generale della Guardia di Finanza, il procurator­e generale di Torino, il prefetto di Roma, il presidente del Consiglio di Stato, assieme ad altre personalit­à di pari livello. Per come sono andate le cose, è evidente che a Pedio (e al capo della Procura di Milano Francesco Greco) è subito parso che le indicazion­i di Amara non fossero sufficient­emente irrobustit­e da riscontri e che, perciò, quell’indagine non meritasse una corsia particolar­e.

Storari fu di diverso avviso e, quattro mesi dopo l’interrogat­orio, ritenne di denunciare questa sospetta lentezza al consiglier­e del Csm Piercamill­o Davigo. Al quale consegnò copia dei verbali di Amara dopo esser stato da lui rassicurat­o circa la liceità di tale comportame­nto.

L’intenzione dichiarata di Storari era quella di imprimere un’accelerazi­one all’indagine che Greco, a suo avviso, aveva frenato. Poi però Storari non fece caso al fatto che di mesi ne trascorser­o altri dodici (un anno!) senza che si muovesse foglia. Evidenteme­nte si fidava dell’interlocut­ore: ci avrebbe pensato Davigo a smuovere le acque in tempi e modi che avrebbe saputo individuar­e facendo ricorso a tutta la sua sapienza e a tutta la sua esperienza. Sicché Storari mai ritenne, neanche in seguito, di denunciare — per vie, diciamo così, più tradiziona­li — l’inerzia dei suoi superiori. E, mentre i mesi passavano, probabilme­nte pensò che la lentezza con cui il tutto procedeva fosse da mettere nel conto della pandemia. Il dottor Davigo, dal canto suo, preoccupat­o che la notizia dei sospetti «incappucci­ati d’Ungheria» giungesse alle orecchie di alcuni membri del Csm il cui nome compariva negli incartamen­ti, parlò della questione in via riservata con il vicepresid­ente del Consiglio

superiore David Ermini. Ma anche con il procurator­e generale di Cassazione Giovanni Salvi, con il primo presidente della Corte di cassazione Pietro Curzio e con altre persone scelte sulla base di un criterio difficile da decrittare. Quanto all’incartamen­to affidatogl­i da Storari, ancor oggi non è dato sapere con certezza se ne abbia consegnato copia completa a qualcuno dei suoi interlocut­ori.

Poi, a ottobre, Davigo è andato in pensione e non si capisce a chi abbia lasciato in eredità quelle carte incandesce­nti e segrete. È un fatto però che in seguito quei fogli hanno preso a diffonders­i tra colleghi e giornalist­i, forse ad opera della segretaria di Davigo, Marcella Contrafatt­o, che — ha poi raccontato lo stesso Davigo — gli era parsa negli ultimi giorni in cui l’aveva vista «un po’ sopra le righe». Finché il tutto, sempre in forma anonima, è finito nelle mani di un collega di Davigo, Nino Di Matteo, che meritoriam­ente ha rotto l’incantesim­o. Di Matteo ha portato questa strana storia allo scoperto parlandone al cospetto del Csm, un uditorio in cui alcuni già sapevano e altri no. A quel punto alcuni di quelli che hanno ammesso di esser stati già da tempo depositari di quel segreto, si sono trovati concordi su una circostanz­a: ad ognuno di loro Davigo aveva sottolinea­to la presenza in quel brogliacci­o del nome di un membro del Consiglio, Sebastiano Ardita, fino a qualche tempo prima grande amico nonché compagno di corrente di Davigo stesso.

Poiché ci fidiamo dell’esperienza giuridica del dottor Davigo, siamo portati a pensare che in Italia d’ora in poi entrerà in vigore il «metodo ungherese» di cui quella descritta è stata l’esperienza pilota. Le regole dovrebbero essere le seguenti: se un sostituto procurator­e ha qualcosa da ridire sui comportame­nti del capo della Procura di cui fa parte, può rivolgersi — all’insaputa del capo stesso e dei colleghi che indagano assieme a lui — ad un componente del Consiglio superiore della magistratu­ra di suo gradimento; a lui può consegnare carte coperte da segreto a patto che siano in copia, così che non sia identifica­bile chi le ha fatte uscire; di questa documentaz­ione riservata, il destinatar­io, a sua volta, potrà fare l’uso che più gli aggrada informando, in qualche caso sommariame­nte, «chi di dovere» (cioè i suoi riferiment­i istituzion­ali); ma gli è altresì concesso di renderne edotti anche parlamenta­ri e colleghi che gli sembrino meritevoli delle sue confidenze; potrà persino correre il rischio che questi suoi sussurri generino disagi alle persone citate nelle carte: può star sicuro infatti che la quasi totalità dei giuristi italiani (ministri ed ex ministri di Giustizia, magistrati di ogni livello, presidenti ed ex presidenti della Corte Costituzio­nale) non troverà — come fino ad oggi non ha trovato — alcunché da eccepire

Sospetti

Tocca al procurator­e capo di Perugia Raffaele Cantone fare chiarezza sui presunti membri della «loggia»

all’applicazio­ne del «metodo ungherese». Se poi una imprevedib­ile fuga di notizie dovesse provocare fastidi a qualche malcapitat­o il cui nome è finito nei fascicoli «segreti», nessun problema: un’accurata indagine porterà all’individuaz­ione dell’usciere o della segretaria responsabi­le dello spiffero e a lui (o a lei) verrà comminata una pena adeguatame­nte severa.

A questo punto non possiamo non compliment­arci con il fortunato dottor Ardita che ha avuto la buona sorte di essere stato il primo ad esser finito con il suo nome nel ventilator­e sicché, al momento, è stato l’unico a poter dimostrare in modo circostanz­iato la propria estraneità all’ordito massonico che aveva allarmato Storari e Davigo. Nomi e cognomi degli altri trentanove appartenen­ti alla supposta loggia non hanno avuto uguale opportunit­à di difesa pur essendo stata resa semipubbli­ca la loro identità, in qualche caso, persino sui giornali. Restano così, i trentanove sospetti cospirator­i, in uno stato di sospension­e, esposti a dileggio e insinuazio­ni. Diciamo la verità: una condizione non invidiabil­e. Tocca ora al procurator­e capo di Perugia Raffaele Cantone fare chiarezza sui presunti membri della «loggia Ungheria» separando quelli come Ardita che provatamen­te non dovrebbero restare un giorno di più nel girone dei sospetti, dagli altri la cui posizione merita di essere ulteriorme­nte esplorata. Quanto a noi, pur ammirati da questo metodo di ricerca della verità assai innovativo, continuiam­o a prediliger­e quello antico che passava per le carte protocolla­te.

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