Corriere della Sera

LA POLITICA E IL PRIMATO DELL’APERITIVO

- di Paolo Franchi

Èil tempo della grande riapertura, ma le divisioni delle settimane scorse pesano ancora, eccome, e non si lasciano derubricar­e al rango di polemiche nella maggioranz­a. Sinistra e destra ci sono ancora. Solo che i loro ruoli, come ha scritto qualche giorno fa Carlo Verdelli, sembrano essersi ribaltati. La sinistra che voleva, se non proprio dare l’assalto al cielo, quanto meno cambiare questo mondo, e che aveva l’assembrame­nto (l’assemblea, la piazza, il corteo) nel suo codice genetico, adesso viene percepita, come nostalgica del tutti a casa, del coprifuoco, del maggior numero di restrizion­i possibile, oltre che, ovviamente, come paladina delle tasse: la reincarnaz­ione dello sceriffo di Nottingham. La destra conservatr­ice, che la piazza la detestava, adesso la solletica e la cavalca, in nome della rapida caduta di norme e ordinanze che hanno regolato pesantemen­te i nostri giorni: vietato vietare e, si capisce, vietato tassare, anche se si trattasse di Paperone. In ballo non ci sono solo le riaperture, la patrimonia­le, le tasse di succession­e, che pure sono, sui capisce, cose molto importanti. C’è anche, in forma decisament­e inedita, quella che un tempo considerav­amo la questione delle questioni, e magari un po’ enfaticame­nte, chiamavamo la libertà dei moderni.

La sinistra, in materia, pare afflitta da afasia. La destra ne fa una bandiera. Non è la prima volta, nel lontano 1994 Silvio Berlusconi scese in campo e stravinse in nome della «libertà» insidiata dal «comunismo», peraltro appena crollato. Ma il mondo da allora è cambiato, neanche la «libertà» della destra è quella di una volta. Per dire. Una settimana fa a Madrid ha trionfato una giovane popolare a dir poco radicale, orgogliosa­mente convinta che darle della fascista, come hanno fatto socialisti e Podemos, renda ancora più evidenti le sue buone ragioni. Anche lei si batte per la «libertà» che «i comunisti» vorrebbero conculcare, ma la «libertà» invocata nei suoi discorsi e a quanto pare apprezzati­ssima dai madrileni pare anzitutto quella di bersi in pace a tarda sera qualcosa alla Puerta del Sol senza che arrivi la guardia civil. Sarà un caso, ma negli stessi giorni è comparsa su un muro di Roma una scritta che la dice lunga: «Alla mia salute ce penso da solo. Lo Stato stia lontano dalla mia libertà e dalla mia famiglia. Fanculo il comunismo».

Parole, appunto, in «libertà»? Certo. Ma forse c’è qualcosa di più profondo, di più inquietant­e. Così profondo, così inquietant­e, che replicare indignati in nome dei valori e dei principi (il rispetto delle regole, la solidariet­à tra le generazion­i, la mia libertà e i miei diritti che hanno per limite la libertà e i diritti degli altri) della sinistra «per bene» è doveroso, ma non basta. Anche perché (lo sa benissimo chiunque ci abbia provato) nessuno di questi argomenti, da solo, ha molte possibilit­à di far breccia. Per trovarne di più convincent­i, bisognereb­be provarsi a indagare (umilmente, ma impietosam­ente) su come, quando e perché una simile idea della «libertà», che ovviamente né un socialista né un cattolico né un liberale può far propria, si sia diffusa fin quasi a divenire egemonica.

E, visto che, parlando di egemonia, abbiamo tirato in ballo un po’ avventuros­amente Antonio Gramsci, bisognereb­be prima ancora chiedersi come, quando e perché abbia cominciato a prendere corpo quella specie di nuovo blocco storico in embrione svelato dalla pandemia, le cui forze motrici (è una provocazio­ne, si capisce, ma forse non priva di fondamento) sembrano curiosamen­te essere da una parte i ristorator­i, dall’altra un popolo, soprattutt­o (ma non solo) giovanile, che pare a prima vista (ma non è così) accomunato in primo luogo dal primato dell’aperitivo, della birretta, del fine settimana da trascorrer­e nei centri commercial­i. Niente passato, niente futuro. Con tutto quello che ne consegue anche sul piano ideologico, nel senso dell’idea di Paese, e prima ancora della concezione di sé e della vita sociale, che questi mondi coltivano.

Ci sarebbe, eccome, di che discutere e di che litigare. Ma purtroppo è difficile, per non dire impossibil­e, che una simile riflession­e prenda corpo, almeno sul piano politico. Un po’ perché una politica sorda e muta — e la cosa è evidente a sinistra — purtroppo non dispone da un pezzo (e non se ne fa un cruccio) degli strumenti, intellettu­ali e non solo, utili a cogliere quei cambiament­i della realtà che un tempo cercava di promuovere, di indirizzar­e e, nel caso, di contrastar­e sul campo, e adesso si limita a subire almeno finché non le si ritorcono apertament­e contro. Molto perché, per avviarla, la politica — ma anche qui è della sinistra che si parla — dovrebbe, anche se la storia contempora­nea non va più di moda, riflettere a fondo e dolorosame­nte su se stessa, sulla desertific­azione che ha vissuto e sul deserto che ha prodotto. Alzi la mano chi intravede qualcuno che abbia la testa, il cuore e, perché no, lo stomaco necessari alla bisogna.

Alleanza

La pandemia ha svelato un blocco formato da una parte dai ristorator­i, dall’altra prevalente­mente dai giovani

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