Corriere della Sera

«Io mi occupo dei conti mio figlio cerca giocatori Così siamo arrivati a 26 stagioni in serie A»

Il patron dell’Udinese: «Il calcio è il nostro hobby di famiglia»

- di Mario Sconcerti

Questa è la storia di una differenza, quella di Giampaolo Pozzo, l’uomo che da 36 anni possiede e gestisce l’Udinese. Nessuno in serie A ha un passato più lungo nel mestiere di proprietar­io. Pozzo è anche l’uomo che per molti ha inventato il calcio moderno. Infine è il signore che oggi compie ottant’anni.

Lei avrebbe portato Zico a Udine?

«No, penso gli affari e il calcio in modo diverso. Ma mi fece piacere vederlo a Udine. Avevamo voglia di essere guardati, ci sentivamo un po’ spersi nel mondo. Eravamo riemersi dopo venti anni di serie C. Poi Sanson se ne andò per colpa di un finto mal di cuore e tutto passò alla Zanussi, la seconda realtà industrial­e italiana dopo la Fiat. Zico era vecchio, altrimenti non ce lo avrebbero dato a quel prezzo. Ma fu un grande colpo per una città che aveva bisogno di allegria. Si cominciò a parlare di Udinese dovunque, mettemmo il primo maxi schermo, rimase a lungo il più grande del mondo. Erano record che ci inorgogliv­ano. Poi arrivò il tempo di pagare il lusso. I dirigenti fecero un po’ di traffici per rimanere in A e finì che ci dettero 9 punti di penalizzaz­ione quando le vittorie valevano 2 punti e le partite erano solo 30. Impossibil­e salvarsi».

Lì arriva Pozzo.

«Sì, dovevamo fare una cordata, c’erano dentro Zoppas, Zamparini e altri. Mi chiesero di dare una mano e accettai volentieri. Alla fine erano rimasti solo i miei soldi, gli altri tutti scomparsi. Sono rimasto per salvare l’investimen­to, mi seccava buttar via soldi così. E divenni presidente. Era il 1986. Naturalmen­te retrocedem­mo, ma da lì cominciò un’altra storia. Sono 26 anni consecutiv­i che siamo in A e abbiamo partecipat­o 14 volte alle coppe europee, 3 volte in Champions».

Ha una dedica per i suoi 80 anni?

«Che ho vissuto bene, ho lavorato molto e mi è piaciuto vivere. Nella mia famiglia, in questa città e in buona parte del mondo. Se andiamo nel particolar­e, i miei dirigenti mi hanno detto che l’Udinese è la squadra che dà più giocatori alla nazionale argentina, quattro: Molina, De Paul, Pereyra e Musso».

Su De Paul dovrà dirci qualcosa. Lo vogliono tutti.

«Noi non abbiamo necessità di vendere. Deciderà lui. Ma se volesse restare sono pronto a rivedere il suo contratto».

Come fece con Di Natale?

«Lui è stato il migliore in assoluto. Mai capitato uno che rinuncia a giocare in una grande squadra per rimanere con noi. Avevo in stanza il suo procurator­e, Carpeggian­i, che era venuto a portare l’offerta della Juve e a chiudere. Di Natale mi guardò e disse: presidente, se posso resto. E io quasi commosso risposi, avanti!».

Perché da trent’anni anticipate tutti sul mercato? I primi ad avere una videoteca di partite da tutto il mondo. Vi hanno seguito in tanti, sono cambiati i tempi, ma il metodo Udinese è rimasto all’avanguardi­a.

«Quello è merito di mio figlio Gino e del suo staff. Io mi occupo di mantenere i conti in equilibrio. Posso dirle che abbiamo cinque scout in Italia e cinque nel mondo. Ormai si gira poco, c’è un sito splendido che dà le partite di cinquanta stati, in continuazi­one. Non solo a noi, sono abbonati tutti i club, anche all’estero.

Ma fa di più, sintetizza. Mettiamo che lei cerchi una mezzala mancina sotto i 24 anni di un metro e novanta. Inserisce i dati e il computer sceglie nel mondo i nomi che rispondono al bisogno e mostra tutte le partite che li riguardano. Questa è la prima fase dura, ore e ore davanti alla tv. Poi si affina il concetto andando a vedere il giocatore sul campo, dopo conoscendo­lo personalme­nte, capendo chi è, cercando di inquadrarl­o nel nostro ambiente. Ci vuole un sacco di tempo, ma i miei mi dicono che è quasi impossibil­e sbagliare».

L’opinione comune è che lei sia stato il primo imprendito­re a mettere insieme il calcio con l’azienda.

«Non mi sento così importante, ho portato con me concetti industrial­i e di vita in cui credo. Qualunque azienda si gestisca, una famiglia, una bottega o la Fiat, la regola è sempre la stessa, dare e avere devono andare d’accordo. Altrimenti prima o poi finisce male».

È stato il primo anche ad acquistare squadre all’estero…

«Il calcio è l’hobby di famiglia. C’è chi si iscrive a un circolo di golf o gioca a bocce. Ma in casa ci è sempre piaciuto la sensazione di sofferenza e piacere che dà il calcio. Capitò un’occasione in Spagna, il Granada

in serie C. Con mio figlio decidemmo di comprarlo. Lo riportammo subito in prima serie, un gran bel lavoro, l’abbiamo tenuto sei anni poi l’abbiamo venduto. L’esperienza ci era piaciuta. Abbiamo continuato a guardarci intorno, a Londra, dove avevamo altri nostri interessi. Così è nato il Watford. Se ne occupa mio figlio, ormai vive a Londra».

Vivendo da dirigente il calcio italiano e quello inglese, qual è la differenza più importante che trova?

«Loro sono più lineari, più coerenti, più imprendito­ri e meno politici. Decidono, non si dividono. Guardi cosa hanno fatto davanti alla Superlega. In due ore le squadre coinvolte sono state prese a schiaffi. Storia finita. Noi stiamo ancora a discutere cosa fare».

Lei arriva poco prima di Berlusconi e Moratti. Loro dopo vent’anni se ne sono andati. Lei è ancora qui. Perché? Ho visto tante volte il calcio cambiare sotto le sue invenzioni.

«Questo mi fa piacere e devo dire credo ci sia qualcosa di vero. Ho fatto resistenze che alla fine hanno portato vantaggi a tutti. L’ambiente è complesso, ci sono interessi paralleli difficili da controllar­e. Nella vita si lavora per affermare se stessi e mettersi alle spalle l’avversario. Nel calcio devi conciliare le tue vittorie con le sconfitte degli altri: lo sconfitto ha bisogno del vincitore e viceversa. Da soli non esistiamo. Questo era l’errore della Superlega, che le dodici fondatrici non prevedevan­o sconfitta: volevano scegliersi da soli l’avversario».

Quindi serve una regola di comportame­nto?

«Sì ma non voglio dettarla io, vorrei conservare un po’ di stile. Anche se, detto tra noi, lei mi dà 250 milioni, io faccio una squadra per vincere lo scudetto. E se non lo vinco devo considerar­mi un imbecille, nel senso che avrei sbagliato scelte io, non i soldi. Ma nei debiti delle grandi società ci sono anche responsabi­lità individual­i. Manager pagatissim­i, storici, lo stesso tecnico, sono stati protagonis­ti e partecipi di questa situazione. Dovevano essere anche loro a dire fermiamoci. Gli stipendi, l’Iva, le tasse, vanno pagati nel tempo giusto, non dopo, altrimenti si falsa la gara».

Ha mai giocato a calcio?

«No, mai. Sono sempre stato un tifoso dell’Udinese, capivo, sentivo l’importanza della squadra per l’umore della città. Una cosa distingue Udine: non siamo tanti in generale, centomila persone, ma siamo tanti per il calcio. Nei tempi buoni andiamo in trentamila allo stadio, come se Milano portasse un milione di milanesi a San Siro».

È per questo che è stato sveltissim­o a rifare il vecchio stadio Friuli?

«Sì. Non abbiamo cercato l’affare, abbiamo cercato di dare alla gente la possibilit­à di vedere la partita in modo decente. Prima, con la pista, la distanza minima tra uno spettatore e il campo era di trenta metri. Poi c’era l’esigenza di dare una copertura. Questa è una città piovosa, l’aria è spesso fredda e umida. Dovevamo rendere tutto più fruibile».

In che senso non avete fatto un affare?

«Non l’abbiamo nemmeno cercato. Sarebbero stati troppo alti i costi. Abbiamo pensato di rendere le cose semplici. Abbiamo chiesto un mutuo al Credito sportivo, la proprietà resta del Comune. A noi basta pareggiare nel tempo le spese avute. Ora tutto quello che riguarda l’Udinese è dentro lo stadio. La società, una club house per noi, la squadra e i nostri migliori abbonati, perfino un centro congressi dove facciamo iniziative prima di ogni partita, incontri di affari tra imprendito­ri locali e nazionali, molte altre cose. Ma è stato tutto fatto a costi possibili. Sento di progetti a Verona tra società e comune per uno stadio da 150 milioni, ma non vedo mai nessuno tirar fuori i soldi. È così dappertutt­o. Oggi non c’è nessuna base economica, politica, per poter pensare di costruire davvero uno stadio di proprietà. Troppo alto il costo e troppa la burocrazia. Meglio andare per gradi, fare subito bene quello che si può. Anche a Udine siamo stati bloccati. Non abbiamo ancora potuto completare l’opera».

È vero che la Var l’ha inventata lei?

«È vero che nel 2003 chiesi al Cnr di Bari un progetto che portasse chiarezza sul gol non gol e sul fuorigioco. Alla fine si arrivò alla fattibilit­à di apparecchi identici a quelli che si usano oggi. Lo feci vedere al presidente della Fifa, era Blatter, che mi disse di non essere interessat­o. Pochi erano interessat­i ad avere più uguaglianz­a. Almeno su questo ora va meglio».

Tanti vogliono De Paul, ma noi non abbiamo necessità di vendere. Se lui vuole sono pronto a rivedere il contratto

Di Natale è stato il migliore, lo voleva la Juve ma lui mi disse: se posso resto. Io, quasi commosso, risposi: avanti!

Zico non lo avrei portato, ma fui felice di vederlo a Udine. Per la città fu un grande colpo, c’era voglia di allegria

Il primo imprendito­re Non mi sento così importante, ho solo portato con me concetti industrial­i e di vita

Errore Superlega Nello sport il vincitore ha bisogno dello sconfitto, l’errore della Superlega? Non prevedeva sconfitte

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Giamapolo Pozzo divenne presidente dell’Udinese nell’86. Da 26 anni consecutiv­i il suo club gioca in serie A
(Anteprima) Passione Giamapolo Pozzo divenne presidente dell’Udinese nell’86. Da 26 anni consecutiv­i il suo club gioca in serie A
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