La ragnatela del premier
Il clima in Consiglio dei ministri non è più quello delle riunioni iniziali, quando il livello di scontro era assai elevato e rifletteva l’umore dei partiti fuori da Palazzo Chigi.
Il tasso di conflittualità nell’esecutivo era tale da aver convinto all’epoca Giorgetti che sarebbe stato «impossibile trovare una sintesi»: «Tutti i leader sono in difficoltà e in cerca di visibilità. Perciò — confidò il ministro della Lega — l’unico modo per andare avanti è che vada avanti Draghi, scontentando tutti per non dover accontentare nessuno». Proprio quello che poi è accaduto.
Oggi il premier — per dirla con un rappresentante del suo governo — viaggia «col pilota automatico». E se è vero che il lavoro preliminare in cabina di regia è funzionale a smussare le divergenze, è Draghi che in Consiglio dei ministri provvede a spegnere i focolai d’incendio: quando Orlando o Giorgetti sollevano questioni politiche, li lascia terminare e immediatamente torna all’ordine dei lavori. Le uniche schermaglie riguardano i provvedimenti in esame, per il resto i tecnici parlano esclusivamente delle materie di loro competenza, tranne Giovannini che ogni tanto si concede qualche licenza.
È la «pax draghiana», con cui il capo del governo impedisce che il salone dei ministri si trasformi in un campo di battaglia, rimandando la soluzione delle vertenze più spinose a riservati faccia a faccia. Nel tempo ha preso anche le contromisure per evitare «spiacevoli fughe di notizie»: dopo che una bozza del Pnrr finì in mano ai media, stabilì che solo gli esponenti del governo avrebbero potuto visionare il nuovo testo, senza prendere appunti, in attesa di discuterne poi in Consiglio. «Bisognerà vedere — dice un autorevole ministro — se questo clima reggerà anche a ridosso delle Amministrative, quando nelle forze politiche salirà la pressione».
Per ora, a sentire un dirigente dem, «in tutti i partiti c’è sgomento. Perché Draghi non segue le abituali liturgie. Parla poco. Anzi non parla». Lo si è visto (anche) con la scelta del presidente esecutivo di Alitalia-Ita, di cui gli alleati di maggioranza e persino i ministri interessati hanno saputo all’ultimo momento. È che il premier — siccome vuole sbrogliare al più presto i tre nodi complicati di Ilva, Mps e Alitalia — ha preferito affidare subito la compagnia aerea ad Altavilla, che sembrava destinato ad altro incarico. Il catalogo è questo. E a quanto pare il metodo Draghi fa presa sull’opinione pubblica, visto che un sondaggio dell’istituto americano Morning Consult pone il premier italiano al secondo posto della graduatoria mondiale dei capi di Stato e di governo più «apprezzati» dai loro cittadini: sta dietro al primo ministro indiano e davanti a Merkel e Biden. Sarebbe interessante capire se anche tra i leader di partito nazionali raggiunge lo stesso, reale gradimento. Perché la tesi prevalente nel Palazzo è che — con il suo avvento — Draghi abbia espropriato la politica, dimenticando che il suo avvento
Le liturgie
Un dirigente dem: «Draghi ha cambiato le liturgie. Parla poco Anzi non parla»
è conseguenza del default della politica.
Ed è proprio a prendere coscienza di come stanno le cose che si è appellato giorni fa Guerini, parlando con alcuni compagni del Pd: «È un errore pensare che Draghi sia entrato nel nostro campo. Piuttosto noi siamo chiamati a entrare nel suo campo, per rilanciare il sistema politico». Così il ministro della Difesa lascia intuire che — a suo modo di vedere — i partiti debbano cambiare approccio nelle loro analisi e accettare la nuova fase, dove le scelte di governo non sono condizionate da questioni ideologiche o di posizionamento, dove il premier non è solo il punto di sintesi ma un fattore del processo di riforme e della loro velocità.
Certo, non è facile elaborare il lutto: sia per chi, prima della crisi, guidava il governo; sia per chi, dopo la crisi, avrebbe voluto le elezioni. Ma questo schema innovativo è la sfida del sistema politico: oggi mostrarsi spiazzati o risentiti nuoce ai partiti.