Il rito (stanco) dei gazebo Quando gli elenchi con i nomi degli elettori erano un «tesoro» conteso
«Dove sono finiti gli elenchi del 2005? Chi li ha? Milioni di persone con indirizzi, nomi, cognomi…». Tanto per dire quanto contassero le primarie e quanto persino l’aspetto più laterale della contesa potesse innescare all’improvviso una guerra all’ultimo sangue: nel 2007, due anni dopo la clamorosa consultazione popolare che aveva illuminato la strada di Romano Prodi verso la premiership, Enrico Letta sollevò la questione di dove fossero finiti gli elenchi degli elettori che nel 2005 avevano scelto il Professore come candidato per Palazzo Chigi; all’epoca, l’attuale segretario del Pd era in corsa per il ruolo che ricopre oggi e temeva, evidentemente, che l’uso privilegiato di quegli elenchi potesse favorire dei candidati a dispetto di altri. Quel «tesoro», nell’era in cui non c’erano né gli smartphone né la continua profilazione di quelli che cliccano «accetta cookie» su ogni sito web, è andato disperso.
Oggi di tesori non ce ne sono più. Della «festa della democrazia» per antonomasia del centrosinistra del nuovo millennio — formula usata per celebrare le affluenze monstre previste e prevedibili all’alba di ogni tornata di primarie — non rimane che uno sbiadito ricordo. E adesso Pd e affini si preparano alle primarie di Roma con la titubanza di chi scongela l’ultimo surgelato di un pacco formato famiglia inaugurato nel 2005, con un prodotto all’epoca prelibato e poi sceso piano piano verso i più atroci sospetti di scarsa commestibilità.
La sfida a sette per la nomination a sindaco della Capitale — Roberto Gualtieri, Giovanni Caudo, Imma Battaglia, Stefano Fassina, Cristina Grancio, Tobia Zevi, Paolo Ciani, in ordine di scheda — ha assunto, nonostante lo standing dei candidati, le caratteristiche dell’acqua senza essere dissetante: inodore, insapore, incolore. E l’affluenza è un enigma — la pandemia in corso e il precedente di Torino della settimana scorsa sono pessimi indicatori — che rischia di presentare una soluzione poco gradita agli organizzatori.
Nate per «accendere» i militanti, allargare la platea degli elettori, scegliere il meglio della classe dirigente e dare uno sprint alla coalizione per le elezioni vere e proprie, nel corso degli anni le primarie hanno iniziato a fallire tutti gli obiettivi, uno dopo l’altro. Le primarie per il sindaco di Napoli del 2011, poi annullate a colpi di denunce per brogli, lanciarono la corsa di Luigi de Magistris, che si era chiamato fuori; il caos a quelle di Palermo nello stesso anno, con Rita Borsellino sconfitta dal carneade Fabrizio Ferrandelli, provocarono la candidatura fuori dai blocchi di Leoluca Orlando, sostenitore della sorella del giudice ucciso a via d’Amelio. Senza dimenticare i risultati della consultazione che, più che dalle commissioni di garanzia, sono stati smentiti dalla storia: alle primarie per il Campidoglio del 2015 la vittoria andò a Ignazio Marino (poi sfiduciato) e i posti meno prestigiosi del podio a David Sassoli (oggi presidente del Parlamento europeo) e Paolo Gentiloni (già presidente del Consiglio, oggi commissario europeo).
Forse, a guardarlo con le lenti di sedici anni dopo, anche se certe cose si vedevano a occhio nudo già allora, non era tutto oro neanche quello che luccicava all’epoca. Alle primarie che incoronarono Prodi nel 2005 correvano in sette, sei uomini (oltre a Prodi, Bertinotti, Mastella, Pecoraro Scanio, Di Pietro e Scalfarotto) e una donna sola, Simona Panzino, detta la «candidata senza volto» perché andava in giro col volto coperto. Certo, quella consultazione portò il centrosinistra a vincere le elezioni nel 2006 e la successiva, che nel 2007 incoronò Veltroni segretario del Pd e candidato premier, al record di voti assoluti mai più raggiunto dai Democratici.
«Ci copieranno anche gli altri», era la tesi dei primaristi ortodossi, da Prodi ad Arturo Parisi, convinti di avere tra le mani il gioiello che avrebbe vantato «innumerevoli tentativi di imitazioni», come nello slogan della Settimana enigmistica. Non è stato così. L’unica primaria in senso stretto organizzata da Silvio Berlusconi, per esempio, è stata per la scelta non tra due persone ma tra due nomi. Dovendo scegliere come chiamare il partito nato dal predellino, il Cavaliere mise l’una contro l’altra ai gazebo due formule: Popolo delle libertà o Partito delle libertà. Vinse il primo. E oggi, tanto per dire, non esiste più da anni.