«Pietra dopo pietra, così ho ricostruito un castello»
Nel Grossetano Paolo Vico ha creato Argentaia, tutto con materiali locali di recupero: ritorno al Medioevo senza effetto Disney
Nessun cartello, nessuna insegna. Dopo una curva, sulla collina della Banditaccia a Magliano, in provincia di Grosseto, appare un fortilizio possente. Sembra un castello medievale. Larghe mura, legni antichi, ferri battuti e un’atmosfera da Trono di spade. È un viaggio nel tempo voluto da Paolo Vico, figlio di un produttore di grissini, diventato trader a New York, Londra e Ginevra. Appassionato di storia antica, cultore di materiali e di costruzioni romaniche, per quasi un decennio Vico si è dedicato ad una ossessiva opera di recupero. Si è trasformato in architetto, ed ha diretto artigiani in grado di plasmare il ferro, la pietra e il legno con le tecniche simili a quelle di cinque secoli fa. Così l’ex uomo della finanza ha creato Argentaia, sei suites con ristorante e spa che si affittano tutte assiemattoni me, per almeno una settimana.
Paolo Vico è arrivato a Magliano con la moglie, l’imprenditrice milanese dei profumi Ambra Martone (la famiglia possiede anche l’hotel Magna Pars) e con il figlio Gregorio, seguito dai gemelli Allegra e Tancredi. Dopo una lunga ricerca («Volevo un castello vicino al mare e ho inseguito l’idea percorrendo mezza Europa», racconta) trova in Maremma, davanti all’Argentario, la realizzazione della sua visione onirica. C’erano i resti diroccati di un convento per monache di clausura. Un vecchio contadino, Frediano, aveva mantenuto in vita una piccola vigna, meno di un ettaro. Vitigni misti, come si usava in campagna: Sangiovese e Trebbiano, Morellino di Scansano e tracce di un Tinto di Spagna. Dalle rovine delle suore e dall’uva di Frediano è partita la costruzione di un castello essenziale, senza merlature. Con l’idea di mettere assieme una tenuta agricola e un resort di lusso al quale si accede da un tunnel senza pavimento, fino ad arrivare alle sculture frammentate del messicano Gustavo Aceves e alle creature modellate da Matteo Pugliese che si liberano dalle pareti.
«Ho recuperato 38 mila metri cubi di pietra. 250 mila e 70 mila coppi, lavorati uno per uno da 15 scalpellini ai quali si sono aggiunti cinque fabbri, con il compito di realizzare ad esempio i chiodi da 15 centimetri per i portali. Ho assoldato gli artigiani maremmani per realizzare il disegno che ho pensato da solo, senza archistar. Ho ritrovato legni perduti da secoli, ricostruito con il ferro battuto le vecchie serrature e i cardini». I muri sono enormi, le pietre delle volte arrivano a pesare ognuna 250 chili, le travi sono autoportanti. «Qui non c’è l’effetto Disney», dice sicuro Paolo, aprendo la porta di una delle torri che ospita una camera. Una vasca da bagno all’ingresso si affaccia sul bosco di 40 ettari e sul vigneto di 10: la stanza da bagno è un vero salotto. Una scala in ferro porta al piano superiore, con un letto da cui si vede il mare.
Tutti i materiali sono stati recuperati in zona. Gli intonaci sono un impasto della terra attorno all’ex convento, paglia, sabbia e calce. Le torri sono alte fino a 12 metri. Al centro, una scenografica piscina a sfioro, una lama blu di 32 metri, tra olivi e vigne.
«La pietra è l’essenza di questo luogo. Non invecchia mai, è oltre il tempo», dice Paolo Vico, sorseggiando il suo Vermentino, Monnallegra, davanti a un camino grande come quelli per le macchine da cucina leonardesche. «Tutto quello che è stato fatto - spiega il castellano Paolo - è partito dai materiali, decidevo come procedere a seconda di quello che avevamo a disposizione». Bandite le colle in favore degli incastri. Ogni cosa, in questo borgo di 5.000 metri quadrati arriva da un’azione di recupero. Tranne la cucina professionale e un tavolo da calciobalilla.
Bandite colle e viti a favore degli incastri. Camere nelle torri, alte fino a dodici metri