Cerca la verità, lei troverà te
La commedia umana di Roberto Alajmo è un giallo dove il dramma si fa farsa
Sa maneggiare molti registri Roberto Alajmo, scrittore siciliano che nel nuovo romanzo, Io non ci volevo venire (Sellerio), un giallo palermitano in cui la suspense cede il passo alla parodia, traduce in trama quell’«arte di annacarsi» (cioè ondeggiare, muoversi senza spostarsi e quindi, in qualche modo, restare a galla) che lo scrittore attribuisce alla Sicilia, titolo di un precedente ironico libro-viaggio nei luoghi e nello spirito dell’isola.
Alajmo è il fine narratore-antropologo del Repertorio dei pazzi della città di Palermo, storie di soggetti eccentrici, biografie minime di outsider con le loro gesta e i loro destini, scritto una trentina di anni fa e uscito in varie edizioni; è l’autore di È stato il figlio, un delitto alla Kalsa dal quale Ciprì ha tratto il film con Toni Servillo, e di Carne mia, tragedia di vendette incrociate che si abbatte su una famiglia. Con L’estate del
’78 ha affrontato di nuovo la famiglia, questa volta dal più privato e doloroso dei punti di vista, il suicidio della madre, sfiorando il mistero della sua vita e della sua morte, a 42 anni. Un’immagine cristallizzata nell’ultimo incontro per strada, a Mondello, nell’estate della maturità, l’anno della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro.
Ora lo scrittore torna in libreria con una commedia gialla in cui gioca con gli stilemi del genere giostrando un pugno di personaggi alla cui testa c’è il più improbabile degli investigatori, Giovanni DiDio, detto Giovà, uomo con poche qualità, che fin dall’infanzia trascorsa in quel filo invisibile di confine che separa la borgata di Mondello da quella di Partanna dove nasce e cresce, si distingue solo per la stazza. Messo in porta nelle partitelle di strada («più che parare ostruiva»), Giovà rimane portiere per tutta la vita. Mai protagonista di nulla, cerca di parare tutti i tiri della sorte restando sempre un passo indietro (come si capisce dal titolo capriccioso), nonostante una madre tutt’altro che possessiva, pronta a fare qualunque cosa per toglierselo dai piedi. È lei, Antonietta, plenipotenziaria di una famiglia «impercettibilmente borghese», di quella borghesia che negli anni, «a partire dal Dopoguerra, si è livellata allo stesso tempo verso l’alto e verso il basso», a trovargli un lavoro. Lo fa portandolo dallo Zzu, contrazione dialettale di zio, nomignolo di referenza senza necessità di appoggiarsi a un nome di battesimo, che dal suo bar Cristallo, circondato da una corte di maschi disposti ad anelli la cui importanza è direttamente proporzionale alla vicinanza allo Zzu, governa il quartiere. Ammessa al cospetto di quell’uomo capace di aprire molte porte altrimenti sprangate, Antonietta pronuncia una parola in nome del figlio — «lavorare» — ammettendo che, di preciso, il ragazzone non sa fare niente e quindi in astratto può fare tutto. La risposta dello Zzu è vaga («Posso chiedere in giro... Ma lei lo sa, io sono il proprietario di un piccolo bar...»), eppure la signora se ne va convinta di avere concluso.
E così è: dopo una settimana Giovà viene assunto da un’agenzia di vigilanza e insaccato in una divisa troppo stretta: è un lavoro semplice, che gli richiede soltanto di mettere bigliettini nei cancelli delle ville del quartiere per dire che la guardia è fatta. Tutto procede tranquillo per anni, prendere atto che l’agenzia non è il baluardo di legalità che la sua ragione sociale sembrerebbe suggerire, a Giovà tutto sommato non interessa. Motivi per frequentare il bar del benefattore non ce ne sono, almeno finché la sorella gemella Mariella gli riferisce che lo Zzu lo manda a salutare e si aspetta anche che lo vada a trovare.
È lì che comincia il giallo. L’inconcludente Giovà torna al bar Cristallo e riceve dal suo mentore un incarico di estrema fiducia: indagare su una ragazza misteriosamente scomparsa. La domanda che i familiari si fanno è semplice: perché affidare a un minchione come Giovà un compito così importante? La madre, che è donna d’azione, si mette a capo di una sorta di comitato investigativo tutto femminile, composto da Mariella, dalla zia Mariola,
sorella del padre di Giovà che vive al piano di sopra, dalla parrucchiera Mariangela che sta al piano di sotto e che porta alla famiglia notizie troppo locali per passare su Retequattro, il canale su cui è inchiodata la tv dei DiDio. L’indagine parallela si svolge principalmente con le armi del pettegolezzo e la riservatezza tanto richiesta dallo Zzu va presto a farsi benedire. Eppure la strada filosofica che la scaltra genitrice suggerisce all’imbelle figlio per uscire dall’impasse è chiara e storicamente provata: «Una cosa è cercare, un’altra cosa è trovare».
Alajmo si diverte con gli stereotipi della Sicilia, compreso quello del cibo per cui l’isola è famosa: a casa di DiDio non si mangiano le caponatine, le sarde a beccafico, la pasta ’ncasciata che la cammerera Adelina cucina a Montalbano, ma i penitenziali tenerumi, cioè i fiori delle zucchine serpente bolliti e conditi con olio e limone, della signora Antonietta.
Al genere giallo Alajmo non crede fino in fondo e preferisce girargli intorno, affidando il racconto a un narratore esterno che muta la tragedia in farsa. Così si vede che cosa gli interessa veramente: pennellare scene esilaranti di vita familiare, infilzare abitudini e luoghi comuni, bozzare ritratti di personaggi distorti ma credibili, tipi umani che parlano siciliano, le cui allusioni, non detti , mezze parole, tutto sommato si possono trasferire in tutte le latitudini italiane.
Il tocco di Alajmo è leggero, scanzonato, ammicca al lettore, ma sotto la prima pelle si vede la ferita della carne. Giovà fa ridere e fa pena, è un vaso di coccio, un debole: non cerca la verità ma la verità riesce comunque a scovare lui. Quando questo gli è chiaro sembra la fine, ma forse è solo l’inizio di un’altra commedia che potrebbe intitolarsi: «Fare finta di niente».
Un buono a nulla indaga su una scomparsa. Una squadra femminile lo aiuta. Ed è soltanto l’inizio