L’ambasciatore della vittoria
Leader della Juve in campo e poi in società Lo slogan: «Vincere è l’unica cosa che conta» Il rapporto con Agnelli, le regole ai giocatori
«Il campionato 75-76 lo abbiamo perso all’ultima giornata. Noi siamo stati sconfitti a Perugia... Quell’estate,il giorno del rinnovo dei contratti, ho messo in bella vista sulla scrivania la foto del Perugia. E quando c’era qualche discussione la indicavo: “Avessimo vinto col Perugia saremmo qui a parlare da campioni d’Italia e sarebbe tutta un’altra cosa...” A quel punto, chi visibilmente chi meno, accusavano il colpo e firmavano». Esiste una aneddotica infinita sul modo in cui Giampiero Boniperti, diventato presidente della sua Juventus, affrontava con i giocatori, tutti ricevuti in una giornata, il tema contratti. Inaspettatamente il più ostico era Zoff, che arrivava a fine sessione, quando Boniperti era provato e ripeteva solo, di fronte a ogni proposta «No, non basta». Non c’erano procuratori e stuoli di avvocati. Non c’erano diritti di immagine né clausole rescissorie. I giocatori erano di proprietà delle società e aspettavano ad agosto, palpitando, una lettera di riconferma. Boniperti voleva dai suoi giocatori un comportamento ineccepibile e interveniva sulla loro vita privata, sollecitando matrimoni, e sul taglio dei capelli o gli abiti che sceglievano. «Qui bisogna vincere, non c’è storia.Qui vincere non è importante, è la sola cosa che conta». La famosa filosofia della Juve fu così definita nel libro che Boniperti, con Enrica Speroni, dedicò al racconto della sua vita.
È stato un calciatore eccezionale, con una visione del gioco e un fiuto per il gol che raramente si incontrano insieme. Ha giocato nella Juve 468 partite e ha segnato 188 gol. Ha cominciato quando c’erano le macerie dei bombardamenti per strada e ha finito quando l’autostrada del Sole era quasi completata. Ha attraversato tre decenni e vinto cinque scudetti e una Coppa Italia. Gli ultimi titoli nazionali, nella società rilanciata da Umberto Agnelli, coabitando, nel reparto di attacco, con Omar Sivori e John Charles. Il primo piccolo, geniale, cattivissimo e il secondo, un gallese gigantesco, buono come il pane. Memorabile la scena dello schiaffo che Charles diede a Sivori in campo per farlo calmare.Quel Charles che quando Boniperti annunciò il suo ritiro disse solamente, commosso, «Io non credere». In quattro anni, insieme, quel trio aveva vinto tre scudetti.
Boniperti era nato punta ma diventato centrocampista, con l’età. Smise presto, a 33 anni, ma aveva cominciato a sedici nel Barengo e in bianconero aveva esordito contro il Milan a 19. Quando smise diede al magazziniere Crova gli scarpini «Non gioco
più». Quello stupito gli rispose «Vai via, falàbrac» e lo stesso Gianni Agnelli gli telefonò alla ripresa della preparazione, in estate, e gli disse di andarsi ad allenare perché «c’è la Coppa dei Campioni», eterno incubo bianconero. Ma la moglie lo convinse a non cambiare idea e gli scarpini Boniperti se li andò a riprendere solo un giorno per metterli nella sua stanza di presidente. Disse il giorno del ritiro: «Se proprio si vuol scrivere di me, vorrei che dicessero che stamane il signor Boniperti anziché ad allenarsi va al lavoro come un qualsiasi cittadino torinese».
E ci andrà al lavoro, ma da presidente della squadra i cui colori aveva tatuati nel cuore, dove non si vedono ma restano per sempre. Eccezionale presidente della Juve forse più bella di sempre, quella di Trapattoni e di Scirea, Rossi, Tardelli, Cabrini, Causio, Zoff, Bettega, Capello, Gentile, Boniek, Furino, Boninsegna, Brady… Quasi venti anni da presidente con nove scudetti vinti e tutte le coppe possibili in bacheca. E nel 1985 visse con dolore la tragedia dell’Heysel.
Non sopportava la tensione delle partite e andava via dallo stadio a fine primo tempo. Grande giocatore, grande presidente, persona ferma e gentile, educata e combattiva. Juventino fino al midollo ha solo sofferto per aver giocato, nei Cinquanta, in una Nazionale che era segnata dalla tragedia del Grande Torino. Fu dando la mano — alla fine di una contestata partita con i ragazzi dell’Inter, a Sandro Mazzola, figlio di quel Valentino con e contro il quale aveva giocato — che si concluse la prima carriera di Giampiero Boniperti.
La seconda, non meno entusiasmante, sarebbe iniziata dieci anni dopo. Gli sarebbe piaciuta oggi questa nazionale, che si diverte per vincere ed è tosta in campo. Proprio la sua filosofia. Nel calcio e nella vita.
I ragazzi azzurri, scendendo in campo, gli rivolgano un pensiero grato. Giampiero Boniperti è stato tanto, per il calcio e lo sport italiano.