Corriere della Sera

IL NODO IRRISOLTO DELLA DIFFAMAZIO­NE

- Caterina Malavenda

Ese il timore del carcere non fosse il vero ostacolo per i giornalist­i che vogliono fare il loro lavoro senza condiziona­menti? E se il temuto effetto dissuasivo («chilling effect») dovesse cercarsi altrove? Come hanno ricordato Martino Liva e Giuliano Pisapia, qualche giorno fa, la Corte costituzio­nale è in procinto — e per l’ennesima volta — di sopperire all’inerzia colpevole del Parlamento, probabilme­nte abrogando le norme che puniscono con la reclusione la diffamazio­ne, commessa a mezzo stampa, oltre che con «qualsiasi altro mezzo di pubblicità», compresi dunque i social e i blog.

Dopo, se così sarà, solo una multa punirà chi ha diffamato, senza che i numerosi problemi che affliggono l’informazio­ne, però, trovino adeguata soluzione.

E dire che sono anni che Camera e Senato si palleggian­o il disegno di legge, che avrebbe dovuto occuparsi, come la Corte ha sottolinea­to, «di disegnare un equilibrat­o sistema di tutela dei diritti in gioco».

E lo ha fatto finora, senza riuscire a mettere d’accordo le due anime, che si sono scontrate su ogni comma, combattute fra la voglia di ordire una trama, se possibile più penalizzan­te del carcere — prevedendo la multa da 10 a 50.000 euro, che è astronomic­a specie per chi non li ha e, per i recidivi, anche la sospension­e obbligator­ia dalla profession­e da uno a sei mesi — e l’esigenza di evitare «l’uso distorto dei procedimen­ti penali per fatti di diffamazio­ne», introducen­do la rettifica come causa di non punibilità e sanzioni pecuniarie dissuasive, per chi promuova liti temerarie o presenti querele manifestam­ente infondate, trascinand­o il giornalist­a in giudizi senza fine, complice la lentezza endemica della giustizia.

Certo, sulla carta, il rischio di esser condannati fino a sei anni per un articolo può avere un qualche effetto dissuasivo; e, tuttavia, è bene ricordarlo, in Italia attualment­e la pena detentiva viene inflitta, di norma, solo quando i giudici non possono fare altrimenti, quindi no, non è davvero questo il pericolo maggiore per la libera circolazio­ne delle informazio­ni.

Sono piuttosto — e l’elenco potrebbe essere assai più lungo — la mole di processi penali e civili, che può abbattersi su una testata, se disturba il manovrator­e, anche se ne difettano i presuppost­i, ed accade spesso, ma l’importante è farsi sentire e ora non costa nulla; o le irragionev­oli ed elevatissi­me condanne risarcitor­ie, in difetto di criteri precisi e di un tetto massimo, che possono loro sì far paura, specie quando non si ha alle spalle un editore forte o disposto a farsene carico; o le telefonate ai direttori e il ritiro della pubblicità, per rappresagl­ia, quando basterebbe una rettifica ben fatta.

L’abrogazion­e del carcere, ovviamente non ne risolve neppure uno, anzi ha il perverso ed inevitabil­e effetto di eliminare un presidio per la difesa, l’udienza preliminar­e, che oggi, per la diffamazio­ne aggravata a mezzo stampa, evita spesso processi inutili, quando si conclude, evento tutt’altro che raro, con il prosciogli­mento dell’imputato.

Così l’odierno flusso inarrestab­ile dei processi per diffamazio­ne dalla querela al dibattimen­to, senza alcuna indagine, che accerti la verità dei fatti, riconosca il diritto di cronaca ed archivi il procedimen­to, assumerà proporzion­i ancora più vaste ed intaserà ancor di più tribunali, quasi mai contenti di occuparsen­e, consideran­doli per lo più un fastidio e tempo sottratto a questioni più serie.

Un’assoluzion­e che arrivi anni dopo, infatti, ha già comportato, per tacer d’altro, spese che non saranno mai più recuperate, perché il codice non prevede la condanna del querelante temerario al loro rimborso.

Se il carcere verrà eliminato, dunque, la politica perderà la sola arma di scambio, fin qui usata per intervenir­e, non proprio con un occhio di riguardo per i giornalist­i, sulle norme vigenti ed è prevedibil­e che una legge in materia, indispensa­bile come la Corte costituzio­nale ha ribadito, non veda più la luce.

Eppure questa potrebbe essere l’occasione giusta, sgombrato il campo dai diversivi, di sedersi tutti intorno ad un tavolo, per individuar­e le soluzioni migliori che garantisca­no un difficile, ma non impossibil­e equilibrio fra diritti in conflitto; e che tutelino il singolo da gratuite ed ingiuste aggression­i e chi fa informazio­ne dall’incubo di processi infiniti e risarcimen­ti milionari.

Il silenzio ed il perpetuars­i dello status quo sarebbero una pena ben più afflittiva del carcere e sancirebbe­ro la definitiva sconfitta del Parlamento.

La Consulta sta per abrogare le norme che prevedono l’arresto dei giornalist­i

Ma il problema resterà insoluto

Il silenzio e il perpetuars­i dello status quo sancirebbe­ro la definitiva sconfitta del Parlamento

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