Il volontario italiano ucciso in Messico
Si era trasferito da Brescia, giallo sul movente
Per essere felice dicono gli bastasse poco: un pezzo di terra da coltivare e dove allevare gli animali, il sorriso di un bambino. Anzi, dei tanti che da anni aiutava consentendo loro di accedere all’istruzione in una delle aree più povere del mondo: il Chiapas, in Messico. È lì, a San Cristobal de Las Casas, che da una decina di anni Michele Colosio, 42 anni, nato e cresciuto a Borgosatollo, in provincia di Brescia, si era trasferito per cambiare vita e dedicarsi ai progetti di volontariato. L’hanno ucciso domenica sera verso le dieci (ora locale) a un isolato da casa, dopo che era uscito per fare spese: stando alle indagini sarebbe stato avvicinato da un uomo, in sella a una motocicletta, che gli ha puntato una pistola e sparato alcuni colpi. Il suo cuore ha smesso di battere appena arrivato in ospedale. Ancora sconosciuto il movente: non si esclude una rapina finita male, quindi la mano di un criminale comune, impossibile non sospettare dinamiche diverse, più profonde, legate proprio a quei diritti fondamentali per i quali Michele si batteva. Lì, in quella parte di Messico dove le milizie zapatiste lottano per l’autodeterminazione delle popolazioni locali e il riconoscimento dei diritti civili e dove tanti italiani — e occidentali in genere — si impegnano da tempo in nome del volontariato, o lavorando nelle filiere del commercio equo e solidale.
«Mio figlio voleva solo fare del bene agli altri, non meritava di trovare la morte, non così», sibila la mamma, Daniela Stanga, in costante contatto con il consolato. Seduta sul divano, stretta nel vestito a fiori, una gentilezza che non ti aspetti, stringe gli occhiali da vista tra le mani: «Non ho la forza di parlare, scusatemi, il dolore è immenso». Ma la poca voce rimasta la alza per lanciare un appello: «Il governo italiano, tutti, si mobilitino per scoprire la verità e capire cosa è successo a Michele. Indietro non me lo riporterà nessuno, ma almeno sia fatta giustizia». L’ultimo messaggio se lo sono scambiati proprio domenica, dopo la vittoria dell’Italia agli Europei. L’ultimo abbraccio, invece, il 26 dicembre scorso, «quando ripartì dopo essere rimasto due mesi: avrebbe dovuto tornare in settembre».
Il Messico ce l’aveva nel cuore, Michele. Il primo viaggio dopo la laurea. Poi, per anni, aveva lavorato come tecnico radiologo in pediatria all’ospedale Civile di Brescia, fino alla decisione: «Mamma, devo andare. Là hanno bisogno di me». A San Cristobal Miguel, come lo chiamavano tutti, aveva in gestione un piccolo podere: allevava animali e sviluppava progetti per l’istruzione di bambini e ragazzi delle zone rurali più povere. «Lui era così, altruista e bisognoso di aiutare il prossimo, di stare a contatto con la natura e rispettare la terra» dice la mamma.
La Casa di accoglienza Yi’ bel ik’Raiz del Viento di San Cristobal — con cui Michele collaborava — ha organizzato una veglia intitolata «Basta con la violenza». Miguel «è morto in seguito a un’aggressione — dicono — una delle tante, che si verificano quotidianamente a San Cristobal, in balia dei gruppi armati: il marciume istituzionale, la povertà diffusa e l’impunità hanno trasformato questa bellissima città nell’ennesimo inferno fra le migliaia esistenti in questo Paese ferito».
«Voleva solo fare del bene agli altri. Non meritava di morire così, ora sia fatta giustizia»