Corriere della Sera

Luisa Adorno la pisana che narrò la Sicilia

Stava per compiere 100 anni

- di Simone Innocenti

«Perché io, sola, non esisto», scrive Luisa Adorno ne Le dorate stanze (Sellerio, 1985), uno dei libri più belli della scrittrice pisana scomparsa ieri a Roma a un passo dai cent’anni (li avrebbe compiuti il 2 agosto) e proprio in concomitan­za con la ripubblica­zione di L’ultima provincia, titolo che segna l’esordio della nuova collana economica «Promemoria» del marchio palermitan­o.

Con la morte di Luisa Adorno si perde una delle voci della narrativa femminile più belle del Novecento. Scrittrice pluripremi­ata legata da sempre a Sellerio — nel 1990 vinse il premio Sciascia e il Viareggio con Arco di luminara e nel 1985 si aggiudicò il Vittorini con Sebben che siamo donne — il vero nome di Adorno era in realtà Lida Curradi Stella. Il nom de plume «lo presi quando pubblicai L’ultima provincia per evitare che attraverso il mio nome fosse riconosciu­to il protagonis­ta, ovvero il Prefetto, mio suocero. Fu riconosciu­to lo stesso, ma lo pseudonimo rimase», raccontò la stessa autrice in Scritture femminili in Toscana (a cura di Ernestina Pellegrini, Le Lettere, 2006).

La sua è stata una vita piena: scappa da Pisa dopo che una bomba aveva centrato la sua abitazione nella Seconda guerra mondiale per riparare a Roma, dove vive fino alla Liberazion­e. A Orbetello — dove stanno gli zii — inizia a insegnare e per tutta la sua vita Adorno non abbandoner­à mai — come sta accadendo a Stefania Auci — la profession­e scolastica nelle scuole medie e superiori. Collaborat­rice del «Mondo» di Mario Pannunzio e dell’«Indice dei libri del mese», Adorno era una lettrice curiosa e vorace: casa sua ospita oltre 15 mila volumi.

La Sicilia entra nella vita di Adorno con il matrimonio e diviene, da quel momento, snodo letterario prediletto. È il caso, appunto, del libro d’esordio L’ultima provincia su «un tema di grande attualità: il rapporto tra la cultura del Sud e la cultura del Nord», come ha dichiarato Antonio Sellerio ieri su queste colonne. Per l’autrice «la storia che in esso racconto è assolutame­nte autobiogra­fica, frutto di una lunga convivenza con la famiglia di mio marito, che è siciliano. Alla fine della guerra, dopo una giovinezza abbastanza drammatica e dominata dalla guerra, sposai questo ragazzo che era il figlio (unico) di un prefetto siciliano. Mi scontrai subito con una realtà diversa dalla mia… Cominciai a prendere appunti su tutto ciò che avveniva in casa, riempii quaderni interi, ed alla fine decisi di condensare il tutto in un romanzo» (così nel Fondo Adorno presso Archivio di Stato di Firenze, dove dal 1999 è depositato tutto il materiale dell’autrice).

Nei suoi 8 romanzi, Adorno restituisc­e una voce che è trama di quotidiano, di quel quotidiano che — come lei — avevano affrontato Luigi Meneghello con Libera nos a Malo, Natalia Ginzburg con Lessico famigliare e Paolo Volponi con Memoriale. Dal carattere schivo ma pronto a esplodere col ghigno toscano, Adorno aveva un modo tutto suo di muovere la parola sulla pagina. Per descrivere la tristezza scriveva: «Incrino cupe recenti solitudini». Per dipingere la sua nuova camera in Sicilia scriveva: «Le strisce sottili di luce della cassina calata zebravano una grande credenza e rendevano preziose le mosche che tagliavano a volo». Andrebbero letti tutti, i suoi romanzi. Letti e meditati. «Perché io, da sola, non esisto». E neppure i lettori senza di lei.

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Luisa Adorno (1921-2021)

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