«I bambini? Guardiamoli negli occhi Parliamo loro come se fossero adulti»
Stevens, regista di «Palmer»: l’amicizia tra un uomo perduto e un ragazzo
Palmer è una ex star del football Usa appena uscito dalla prigione per tentato omicidio, Sam è un bambino robusto con gli occhiali che gioca con le bambole, si mette il rossetto e si traveste da femmina. Il film di Fisher Stevens, uno degli eventi del festival, è la storia della loro amicizia.
Il titolo prende il nome da uno dei due protagonisti, Palmer, interpretato dalla popstar Justin Timberlake. Ci sono temi caldi: il bullismo, l’America rurale, la paura dell’abbandono, i danni che posso fare giudici e servizi sociali, quando si trincerano dietro i cavilli non anteponendo la legge del sentimento, la redenzione, i sentimenti che odorano di bucato. Al regista chiediamo: com’è nata questa amicizia così improbabile ma commovente? «Da mio nipote Max, che ora ha 18 anni e fa il ballerino. La sua infanzia è simile a quella di Sam, anche lui giocava con le femmine, vestiva come loro e i suoi genitori erano sconvolti».
Non si vedono i grattacieli di New York, siamo in una piccola città... «È l’America campestre della Louisiana. Sono un documentarista, ho riprodotto il mio stile, coinvolgendo gente reale, anche se non per i ruoli principali. Ma nelle scene corali, i parrocchiani in Chiesa o il party, c’è la gente del posto. È l’America di Donald Trump che volevo esplorare, fatta di brava gente ma con un punto di vista sulla politica e sulla vita diverso dal mio. Il mio paese non è mai stato così diviso, polarizzato».
La chiave del film (girato in appena 25 giorni con un budget inferiore a 5 milioni di dollari) è nel piccolo protagonista, Ryder Allen. «L’ho scelto tra 300 bambini, e non al primo colpo. Lo stesso è avvenuto con Justin Timberlake, che aveva il tour, dei dubbi e mi ha fatto aspettare un po’. Ho parlato con Leo DiCaprio della persona giusta per quel ruolo, la sua manager mi ha messo in contatto con Justin. Il film ha avuto un’ottima accoglienza, è stato il più visto sulla piattaforma di Apple».
Torniamo al bambino. Nel film sua madre è una tossicodipendente, vicina di casa (si fa per dire: vive in una roulotte) di Timberlake. Il piccolo sogna di far parte del club delle Principesse alate di Penelope, un cartoon tv. Intanto cresce l’affetto che lo lega all’ex galeotto in cerca di una seconda chance nella vita. Non è facile, per un pregiudicato in libertà vigilata, stargli accanto, proteggerlo. E poi è un impulsivo... «Sono due disadattati, si salvano l’un l’altro».
Ma lei come parlava a Ryder sul set, come gli spiegava la anticonvenzionalità delle situazioni? «Ho chiesto consigli al mio amico Peter Bogdanovich. Nel 1974 diresse Paper Moon dove protagonista è Tatum O’Neal, la figlia di Ryan,
Il mio Paese, gli Usa, non è mai stato così diviso, polarizzato
È l’America di Donald Trump quella che volevo esplorare
all’epoca adolescente e vinse l’Oscar come attrice non protagonista. Peter mi ha detto: guarda questo bambino negli occhi e parlargli come se fosse un adulto. Ryder aveva partecipato solo a un episodio tv, aveva un coach per il dialetto perché lui è di Los Angeles».
Nel film affronta il bullismo, «hai le mutandine rosa», gli urlano i compagni di scuola. «Lo ha vissuto mio nipote, anche se viene dall’America liberale dell’Illinois. I bambini possono essere cattivi quando vivono qualcosa lontano dalle loro abitudini. Ma vorrei fare i complimenti a voi italiani». Per cosa? «Per la vittoria agli Europei. Ero a Wembley. Chiellini che campione».
Già che stiamo parlando di comportamenti violenti, come giudica l’antisportività di un popolo come quello inglese, i calciatori che si tolgono la medaglia d’argento dileggiandola, il principe William che fugge dallo stadio senza assistere alla premiazione... «Lo stadio era una bolgia, Londra piena di ubriachi fin dal mattino, la gente voleva scappare dagli hooligans, il principe William aveva le guardie del corpo che avranno deciso per lui. Ma certo, è stato un finale d partita indecoroso».