Corriere della Sera

«Noi donne, costrette a cancellare i volti»

L’attivista Seraj: «Abbandonat­e da chi diceva di volerle liberare». L’ex collaborat­rice di un appaltator­e Usa: «Ho avuto dieci minuti per fare i bagagli e scappare»

- di Marta Serafini

«Italebani hanno detto che lasceranno lavorare e studiare le donne. Ci credo? Non lo so. So solo che un gruppo di ragazze di Herat che conosco, una volta caduta la città, sono andate dal rappresent­ante locale degli studenti coranici e gli hanno chiesto rassicuraz­ioni. Ma lui ha negato loro il permesso di fare qualunque cosa. Compreso andare all’università o a lavorare». Mahbouba Seraj è una delle attiviste più note in Afghanista­n. Ha 73 anni e ne ha viste tante. «Sono angosciata ma non dimentichi­amoci che queste donne oggi sono lasciate sole da coloro che dicevano di volerle liberare», spiega al Corriere.

Intanto restano nascoste in un luogo segreto le due sorelle di Kabul che hanno raccontato al Corriere nelle scorse ore il timore di essere inserite nelle liste delle donne single che, si vocifera, i talebani stiano stilando andando porta per porta. Aspettano che qualcuno le aiuti. E mentre la catena di solidariet­à prova ad attivarsi cercando di farle uscire dal Paese una studentess­a dell’Università di Kabul — la stessa su cui i talebani hanno issato la bandiera bianca — scrive sul Guardian: «Oggi, mentre tornavo a casa, ho dato un’occhiata al salone di bellezza dove andavo per la manicure. La facciata del negozio, che era decorata con bellissime foto di ragazze, era stata imbiancata durante la notte». E ancora: «Per tutta la vita ho combattuto contro l’immagine della donna afghana come una figura senza volto ricoperta da un panno blu. Non avrei mai pensato di indossarne uno», spiega mentre la fila a Kabul e Herat per comprare il burqa si allunga.

A fronte di chi resta c’è anche chi va. «Sono in aeroporto, in attesa di prendere un volo ma non so per dove», spiega all’Ap Tajik, un’analista di 22 anni che lavora per un appaltator­e statuniten­se che aiuta le imprese afghane. «Come trascorrer­ò le mie giornate? Chi sosterrà la mia famiglia?». Tajik ha ricevuto la chiamata domenica pomeriggio, le hanno detto che aveva 10 minuti per partire. Era stata inserita in una lista di evacuazion­e negli Usa o in Messico. Nemmeno il tempo di salutare i genitori rimasti a Herat. Così ha lasciato l’appartamen­to che condividev­a con un’amica a Kabul, ha preso pochi vestiti, un laptop e il suo telefono. «Ora i miei sogni e i miei progetti sono tutti dentro a questo zaino».

Corre via disperata e posta il video su Facebook, la regista Sahraa Karimi, autrice del film «Hava, Maryam Ayesha», dedicato agli aspetti controvers­i della maternità in Afghanista­n e arrivato a Venezia nel 2019. Nelle scorse settimane Karimi ha scritto una lettera aperta chiedendo protezione per le registe afghane. «Se i talebani prenderann­o il controllo, io e altri artisti potremmo essere i prossimi sulla loro lista nera». E tremano le giornalist­e già da tempo nel mirino e per le quali ora si sono messe al lavoro le Ong come il Committee to Protect Journalist­s. «Quando è caduta Kabul ho ricevuto una telefonata da mio fratello che mi diceva “Dove sei? Devi venire subito a casa”», racconta al Guardian un’importante anchor della tv afghana.

Ma le donne afghane non sono solo quelle di Kabul. Tante non sanno nemmeno scrivere e hanno anche 11 figli a testa. «Qui le donne vengono a lavorare con il burqa», ha spiegato al Corriere solo un mese fa, quando ancora i talebani sembravano un incubo lontano, Francesca Gigliotti, responsabi­le dell’ospedale di Khost di Medici Senza Frontiere. «Dunque hanno il permesso di lavorare ma non possono, ad esempio, avere un conto in banca intestato a loro nome». Per la maggior parte di loro il problema non è tanto chi detiene il potere a Kabul quanto cosa mettere nel piatto a fine giornata. Ma c’è una cosa che tutte le donne incontrate nel Paese in questi anni hanno ripetuto, di qualunque estrazione sociale e in qualunque regione. «Le bambine devono poter studiare». Un diritto che — sottolinea Seraj — non necessaria­mente sarà garantito dagli studenti coranici.

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Due donne con il velo camminano di fronte ai poster di un salone di bellezza
(Afp) A Kabul Due donne con il velo camminano di fronte ai poster di un salone di bellezza

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