Corriere della Sera

FALSE PROMESSE

Hanno creduto che avremmo protetto il loro stile di vita. Fin quando ce ne siamo andati per ragioni anche più nebulose di quelle che ci avevano portato lì

- di Paolo Giordano

Sono stato in Afghanista­n due volte, nel dicembre 2010 e un anno più tardi, a fine 2011. Nel mezzo del periodo che, a posteriori, è stato il culmine di intensità di questa guerra lunghissim­a. Una guerra che, qui, abbiamo sempre avvertito lontana, astratta. Raccogliev­o materiale per un libro e il dubbio da cui avevo iniziato il processo era proprio quello: l’estraneità che io, come molti altri, avvertivo verso un conflitto che tuttavia si prolungava già da un decennio e del quale, che ci piacesse o no, anche noi italiani eravamo parte, con un contingent­e allora di quasi tremila soldati.

Una guerra che era iniziata nel passaggio simbolico della mia maggiore età, combattuta dai miei coetanei, e che non accennava a finire.

Bene, ora è finita davvero e nel più disgraziat­o dei modi. Ricordo che, parlando con i soldati italiani laggiù, prima nella base di Herat poi in un avamposto angusto e pericoloso in Gulistan, cercavo di indagare quali fossero, secondo loro, le ragioni della nostra presenza. A che cosa servisse quella missione. Non si trattava di una domanda del tutto legittima da rivolgere a dei militari, lo sapevo, eppure continuava ad apparirmi una domanda sensata. Le risposte spaziavano dalle schermagli­e più rigide («è il nostro mestiere»), alla retorica imperialis­ta e un po’ vaga («aiutiamo il popolo afghano nel suo percorso di liberazion­e»; «ma hai visto come trattano le donne i talebani?»), fino a reazioni più spontanee: «Non ne abbiamo idea, ci siamo e basta».

L’avamposto del Gulistan, tirato su con sacchi di sabbia in mezzo a una spianata di deserto, sembrava confermare quel senso di vanità. I confini della «bolla di sicurezza» erano invisibili, lo era quasi sempre il nemico, e tutto appariva lattiginos­o, ovattato, un vero e proprio deserto dei Tartari mediorient­ale. Dei pattugliam­enti nel villaggio vicino a cui ho partecipat­o mi sfuggiva lo scopo, mi sembravano pericolosi e basta. Un dispiego clamoroso di vite umane, soldi ed energie in una terra che aveva qualcosa di fantasmati­co, di irraggiung­ibile e inafferrab­ile, e che sarebbe probabilme­nte rimasta tale.

Durante la seconda visita il maltempo mi ha tenuto bloccato a Herat più del previsto. Gli elicotteri non volavano e io scalpitavo, perché la storia che avevo in mente non doveva svolgersi lì. Ho passato diverse giornate a girovagare tra i compound, la mensa, il bar desolante e il bazar. Una sera sono stato a una festa con delle luci stroboscop­iche in una delle tende. Faceva molto freddo. Più per esasperazi­one che altro, mi sono arreso a partecipar­e al programma di visite rituali organizzat­o dall’ufficio stampa dello Stato Maggiore. Come sempre in questi casi, si trattava di un tour votato a magnificar­e l’utilità di quanto stavamo facendo lì. Il Provincial Reconstruc­tion Team, a guida italiana e che ha concluso il suo mandato nel 2014, dichiara di aver portato a termine più di milleduece­nto progetti, tra cui scuole, ospedali, carceri, pozzi. Ma il nostro scopo principale, quello di tutta la missione ISAF, era di addestrare le forze armate afghane, di esportare disciplina, arte della guerra, in modo che quel popolo ipotetico dotato di un’unità nazionale ipotetica e di una democrazia ancora più ipotetica potesse presto andare avanti da sé, difendere i suoi (i nostri?) valori in autonomia.

Mi ha colpito ritrovare nelle parole di Davide Frattini una descrizion­e di quei soldati in addestrame­nto pressoché identica a quella che conservo io: ragazzi che sembravano pescati chissà dove e messi fuori dal loro elemento, che già dalla postura con cui imbracciav­ano i fucili non trasmettev­ano alcuna fiducia. Indolenti, storditi. Quell’impression­e non appartenev­a solo al mio occhio esterno. Tra i nostri militari circolavan­o innumerevo­li scherzi e aneddoti a proposito delle forze armate locali, della loro inefficien­za, ed era impossibil­e non percepire dietro l’ironia uno sconforto invincibil­e, sebbene il personale italiano portasse avanti il suo compito didattico con umiltà, giorno dopo giorno. Per chiunque abbia osservato uno di quegli addestrame­nti, la velocità furiosa con cui i talebani hanno ripreso in mano l’Afghanista­n lasciato a sé stesso non è affatto sorprenden­te. È solo più triste, perché annunciata. Eppure, già nel 2010, si poneva come data di ritiro delle truppe il 2014, quando l’esercito afghano avrebbe «verosimilm­ente assunto il controllo totale della sicurezza sul territorio».

Da quel «verosimilm­ente» e dalla mia visita sono passati altri dieci anni. Siamo rimasti in Afghanista­n per venti in totale. Un’epoca intera. Le morti dei militari occidental­i sono diminuite anno dopo anno, fino quasi ad azzerarsi,

L a guerra

Sono stato in Afghanista­n due volte. Nel mezzo del periodo che, a posteriori, è stato il culmine di questa guerra lunghissim­a, che, qui, abbiamo sempre avvertito lontana Raccogliev­o materiale per un libro e il dubbio da cui avevo iniziato era proprio quello: l’estraneità che, come altri, avvertivo verso un conflitto di cui, ci piacesse o no, anche noi italiani eravamo parte

e questo ha dato a tutti noi l’illusione di una fine, di uno stato di quiete ormai raggiunto e difeso oltre l’ammissibil­e. Il silenzio ha allontanat­o ancora di più quel conflitto già alieno. Nel frattempo, per molti bambini e bambine, ragazzi e ragazze afghani cresciuti in questo tempo lungo, la nostra presenza di occidental­i a protezione del loro stile di vita dev’essere diventato una promessa duratura in cui credere, su cui fondare delle esistenze. Finché ce ne siamo andati, per ragioni ancora più nebulose e non dichiarate di quelle che ci avevano portato lì, ritirando in un istante la promessa.

Non ho mai avuto fantasie meramente pacifiste. Al contrario, l’esperienza di scrivere un romanzo di guerra mi ha convinto dell’inevitabil­ità di molti conflitti, anche armati. Ma sulla missione in Afghanista­n non sono riuscito a fugare nemmeno uno dei dubbi iniziali. Non il senso di estraneità, non il presentime­nto che si trattasse di un infernale giro a vuoto. Come si valuta l’opportunit­à di una guerra? La si vacompeten­ze,

La scuola

L’ultima tappa a Herat prevedeva la visita a una scuola per studentess­e, così distante dalla mia ricerca di allora che a malapena tollerai la passeggiat­a. Da una settimana non riesco a pensare ad altro che a quella scuola, l’idea di come possa essere adesso mi tormenta, ma ancora di più la mia insofferen­za di allora: non aver capito che il senso di questa guerra vada cercato nel destino di quella scuola

luta dalla bontà delle ragioni che l’hanno mossa, da quanta violenza ha portato, dal successo o dall’insuccesso; oppure da come lascia il teatro in cui si è svolta, dalla dote che ricevono le persone rimaste?

L’ultima tappa del tour istituzion­ale a Herat prevedeva la visita di una scuola aperta per le studentess­e. Ci sono arrivato a fine giornata, stanco. Quel tipo di esplorazio­ne era così distante dalla mia ricerca del momento (indagare l’animo maschile in guerra, l’irruzione della violenza nella noia), che ho a malapena tollerato la passeggiat­a nei corridoi e nelle aule, la mostra dei disegni alle pareti, le spiegazion­i della direttrice. Sto perdendo tempo, mi dicevo, questo non mi servirà a nulla. Perciò non ho fatto nessuna foto, non ho preso un solo appunto. Non ricordo nemmeno il nome.

Da una settimana a questa parte, da quando Herat è finita sotto il controllo talebano, non riesco a pensare ad altro che a quella scuola. Mi tormenta l’immagine di come possa essere adesso, priva di protezione. Già chiusa? Già devastata? Già trasformat­a in altro? Che cosa ne è delle studentess­e che la frequentav­ano? Mi tormenta ancora di più la mia insofferen­za di allora, il non aver capito niente di un’impresa che mi sembrava solo piccola e precaria. Mentre oggi mi sembra che il senso di questa guerra lunghissim­a vada proprio cercato nel destino di quella scuola a cui non ero interessat­o. Perché c’erano gli americani, è vero, hanno sempre deciso tutto gli americani, ma c’eravamo anche noi a formulare certe promesse, e siamo stati anche noi, d’un tratto, a revocarle.

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Paolo Giordano osserva alcuni soldati in Afghanista­n durante una pausa delle operazioni militari
Nel 2010 Paolo Giordano osserva alcuni soldati in Afghanista­n durante una pausa delle operazioni militari

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