LA FINE PEGGIORE
Che il ritiro dall’Afghanistan fosse un disastro annunciato era chiaro fin da quando Donald Trump lo decise da solo spingendo poi il segretario di Stato, Mike Pompeo, a dare ai talebani la patente di interlocutori credibili.
Il presidente repubblicano si illudeva di poter far cadere il sipario sul conflitto a colpi di tweet, mantenendo il consenso interno e ignorando il biasimo internazionale. Il suo successore democratico, convinto anche lui da 12 anni del fallimento di una guerra che lui stesso aveva votato nel 2001, ha confermato la scelta di Trump, pur consapevole degli alti costi del cedimento ai talebani. Joe Biden, il presidente dai tratti paterni, l’empatia la riserva soprattutto ai suoi concittadini: sull’Afghanistan ha scelto, e non da oggi, un cinismo da America First.
Nel 2009, appena divenuto vice di Obama, disse all’inviato speciale della Casa Bianca in Asia Centrale, Richard Holbrooke, che l’America doveva andarsene dall’Afghanistan senza farsi condizionare da vincoli umanitari e dai diritti delle donne. Secondo i diari del diplomatico scomparso, nemmeno lo spettro di una ritirata caotica come quella del 1975 da Saigon spaventava più di tanto Biden, convinto che Nixon e Kissinger avessero fatto una scelta giusta e coraggiosa, anche se dolorosa.
Ma il modo in cui la crisi è precipitata in poche ore — governo Ghani in fuga, evaporazione di un esercito afghano costruito e addestrato per vent’anni dagli Usa con un investimento di 83 miliardi di dollari, le immagini dei civili che si aggrappano agli aerei militari Usa e cadono nel vuoto — apre scenari assai più drammatici di quelli che erano stati messi in conto dal presidente democratico quando, il 6 aprile scorso, ordinò il ritiro totale e in tempi rapidi, respingendo la richiesta dei capi militari di un’evacuazione più graduale, rinegoziandone le condizioni coi talebani.
Allergico ai rinvii del Pentagono, Biden era comunque convinto che il ritiro potesse avvenire in modo ordinato. E invece lo spettro di Saigon si è materializzato un’altra volta, 46 anni dopo: un fallimento politico, militare e dell’intelligence Usa con gli analisti che ora si dividono tra chi considera più gravi i rischi di un ritorno del terrorismo radicale jihadista che riconquista un territorio nel quale creare un emirato islamico e chi giudica, invece, più grave la perdita di credibilità degli Stati Uniti e di tutto l’Occidente: si apre un vuoto che può essere sfruttato dall’Iran, dalla Russia e dalla Cina. Con Pechino che vede nella caotica ritirata di queste ore una conferma della sua tesi: l’ineluttabile declino americano, una condizione che potrebbe anche spingere il regime cinese a tentare qualche avventura pericolosa. Magari su altri scacchieri come quello di Taiwan.
Nulla di tutto questo è scontato: la nuova leva dei talebani, pur mantenendo un’impostazione radicale all’interno, potrebbe mostrarsi più prudente fuori dai confini per evitare altri conflitti, e non solo con gli Usa. Immaginare un ritorno al Grande Gioco costruito da varie potenze per oltre un secolo attorno all’Afghanistan rischia di essere solo una suggestione storica che non tiene conto di nuove realtà: la Cina, ad esempio, sarà interessata a colmare il vuoto lasciato dagli americani, ma, da Paese che reprime in modo brutale la minoranza musulmana degli uiguri, difficilmente sarà felice di avere uno stato islamico fondamentalista alle frontiere occidentali.
Il vero disastro è il modo in cui vent’anni di lavoro — prima per costruire una diga contro il terrorismo, poi con l’obiettivo di esportare la democrazia e di garantire il rispetto dei diritti delle donne — sono svaniti in poche ore. Ne escono a pezzi soprattutto i servizi segreti che, pur consa pevoli della debolezza del governo afghano, avevano escluso la possibilità di un suo crollo prima di 18 mesi. In un’era nella quale l’America non manda più soldati in giro per il mondo e svolge la sua sorveglianza affidandosi alla tecnologia dei droni, delle intercettazioni e degli algoritmi, l’intelligence è il suo principale strumento di difesa: questo fallimento è, quindi, agghiacciante. Ma c’è anche altro: una sorta di visione autoreferenziale del mondo nella quale tutti — politici, diplomatici, militari — sembrano aver commesso gli stessi errori di valutazione.
La caduta di Kabul è un colpo micidiale per la credibilità internazionale degli Stati Uniti: una vicenda dalla quale anche Biden esce con le ossa rotte, se non altro perché solo cinque settimane fa aveva ridicolizzato con toni perentori i giornalisti che lo interrogavano sui rischi di una ritirata caotica in quella che, rivista oggi, appare una delle più imbarazzanti conferenze stampa mai tenute alla Casa Bianca. Scelto dagli americani come presidente anche per la sua grande esperienza internazionale, Biden vive un momento difficile, ma non è detto che perderà la fiducia degli americani: stando ai sondaggi, la maggioranza condivide la scelta di abbandonare l’Afghanistan e non sembra molto preoccupata per il destino di quel popolo. Se non ci sarà una recrudescenza del terrorismo (o se gli Usa smetteranno di essere il principale bersaglio dei jihadisti) il presidente, superata la bufera, potrà rivendicare di aver chiuso la guerra più lunga della storia americana, un’occupazione durata più di quella britannica dell’Ottocento e, addirittura, il doppio di quella sovietica degli anni Ottanta.
Su una cosa Biden ha ragione: se non imparano a farlo da soli, gli afghani non possono pretendere che siano potenze straniere a difenderli a oltranza dall’estremismo islamico. E non è da escludere che i jihadisti, compatti nella lotta contro la modernità occidentale, una volta cacciato lo straniero si dividano tra battaglie teologiche e conflitti tribali. Magari con l’intervento di altre potenze regionali, spaventate dalla nascita di un califfato sunnita radicale. Per ora solo ipotesi e scenari geostrategici dagli sbocchi imprevedibili.