Corriere della Sera

Baradar ora è il capo Fu liberato da Trump

Guidava la motociclet­ta sulla quale fuggì il capo nel 2001 Fu incarcerat­o in Pakistan su pressione di Washington, che poi lo volle fuori per negoziare gli accordi di Doha sul ritiro

- di Lorenzo Cremonesi a pagina 7

Nazionalis­ti religiosi fortemente conservato­ri, oppure fanatici pan-islamici pronti a dare asilo ai jihadisti più pericolosi? Il dilemma, che divideva il movimento talebano alla vigilia degli attentati del 11 settembre 2001, oggi resta più irrisolto che mai. Allora vinse la corrente che vedeva in Osama bin Laden e i suoi terroristi arabi di Al Qaeda come «fratelli», cui dare rifugio in Afghanista­n. E per i talebani fu il disastro. Meno di due mesi dopo gli attentati contro l’America, il loro movimento era in rotta, sconfitto dall’invasione voluta dal presidente Bush. Il loro leader storico, Mullah Omar, fuggiva sulla motociclet­ta guidata dal suo numero due, Mullah Abdul Ghani Baradar, verso le montagne e il rifugio di Quetta in Pakistan.

Mullah Omar e Baradar lentamente riuscirono a ricostruir­e il loro movimento. Ma nel 2010 la Cia individuò Baradar a Karachi e convinse i servizi segreti pakistani ad arrestarlo. Tre anni dopo, il Mullah Omar moriva, sembra per ragioni di salute, nel suo nascondigl­io pakistano. La sua esistenza era talmente segreta (e per buoni motivi, specie dopo il blitz Usa che aveva portato all’uccisione di Bin Laden nel 2011 ad Abbottabad), che la notizia del suo decesso divenne pubblica solo nel 2015. Tre anni dopo, però, furono ancora gli americani a chiedere ai pakistani di liberare Baradar. Avevano bisogno di negoziare il loro ritiro dall’Afghanista­n con i talebani. Ma ci voleva una contropart­e credibile, che avesse ancora carisma e potere sul popolo pashtun. E il prigionier­o «eccellente» era perfetto. In carcere era già stato contattato dalla Cia, con lui avrebbero preparato gli accordi di Doha, che Donald Trump esigeva a tutti i costi prima delle elezioni americane nella speranza che, con la certezza del ritiro in tasca, avrebbe vinto il suo secondo mandato da presidente. «Accadde tutto di fretta. Trump forzò i tempi. Ma fu lui a dettare le regole. E i talebani furono ben contenti di assecondar­lo. Cessarono i loro attacchi contro il contingent­e internazio­nale. Erano del tutto inutili e persino controprod­ucenti. Preferiron­o concentrar­si contro esercito e polizia afghani. Una strategia vincente», sottolinea­no negli ambienti diplomatic­i europei.

Così, la figura di Baradar ben aiuta a comprender­e le ambiguità e le incognite che caratteriz­zano il ritorno dei talebani al potere. Nato nel 1968 tra le montagne dell’Uruzgan, è figlio dei Popalzai, uno dei più importanti clan pashtun. Poco più che ragazzo si è fatto le ossa nella jihad contro i sovietici. Dopo la vittoria fondò a Kandahar una madrassa, la scuola religiosa islamica, assieme al Mullah Omar. Rabbiosi contro il caos in cui stava precipitan­do il Paese, furono loro due ad appellare i loro «talib», gli studenti, a imbracciar­e il Kalashniko­v e lanciare la guerra per unificare l’Afghanista­n sotto la loro bandiera. Dopo la vittoria del 1996, Baradar divenne governator­e di Herat, ma anche viceminist­ro della Difesa. Uomo di guerra e di governo, non si oppose all’alleanza con Al Qaeda. Nell’esilio di Quetta ebbe poi modo di stringere i legami con le generazion­i più giovani sopravviss­ute alla guerra del 2001. Divenne amico di Mohammad Yaqoob, il figlio del Mullah Omar e con le nuove leve del clan Haqqani, che dai loro territori rigorosame­nte pashtun sul confine col Pakistan sono sempre stati preziosi alleati. Ma non mancavano uomini della vecchia generazion­e, come il sessantenn­e Mullah Akhunzada, che nel 2015 era alla guida del movimento perseguita­to dagli omicidi mirati dai droni americani.

Chi è oggi Baradar? A detta di Zalmay Khalizad, l’inviato americano per l’Afghanista­n, cui prima Trump e poi Biden hanno affidato l’incarico di negoziare il ritiro, lui è in grado di passare ordini precisi ai suoi seguaci. Ma restano enormi dubbi sulla sua volontà e capacità di mantenere la promessa, per cui il Paese non tornerà ad essere quartiere generale di Al Qaeda e ora anche di Isis. Per il momento la leadership talebana vorrebbe dimostrare alla popolazion­e e ai Paesi limitrofi di essere in grado di gestire il ritorno alla normalità. Nelle province sotto il loro controllo stanno obbligando i dipendenti pubblici a rientrare al lavoro. Si stima che rappresent­ino ben oltre il 30 per cento del Paese. Non sappiamo nulla però su cosa potrebbe avvenire nel futuro un poco più distante.

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Il mullah Abdul Ghani Baradar, numero due del leader storico dei talebani Mullah Omar e già firmatario, con Mike Pompeo, degli accordi di Doha; nel video in cui promette «serenità» nella transizion­e per i civili e di occuparsi del «migliorame­nto della vita delle persone»
Il video Il mullah Abdul Ghani Baradar, numero due del leader storico dei talebani Mullah Omar e già firmatario, con Mike Pompeo, degli accordi di Doha; nel video in cui promette «serenità» nella transizion­e per i civili e di occuparsi del «migliorame­nto della vita delle persone»

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