Corriere della Sera

Il muratore si costruì l’anima

«Tutta una vita» esce per Rubbettino, che sta ripubblica­ndo l’intera opera dello scrittore calabrese Esistere, cioè sperare: il romanzo ritrovato di Saverio Strati è quasi un’autobiogra­fia

- di Giancristi­ano Desiderio

Ecco, è arrivato in libreria il romanzo postumo del maggior scrittore calabrese del secondo Novecento: Saverio Strati (1924-2014). Ma subito dobbiamo correggerc­i e provare a mettere sulla buona strada il lettore che si chiederà chi sia Strati: non si tratta di un autore locale, piuttosto, di uno scrittore che ha le sue radici nella sua amata e amara terra di Calabria e da lì, allo stesso tempo legato e slegato, riesce a guardare l’Italia intera e a mettere a tema l’uomo in quanto tale e la sua «eterna» condizione.

Non aveva fatto così anche il grande Corrado Alvaro? Non a caso Geno Pampaloni, scrivendo la prefazione al romanzo Tibi e Tascia, parlò di Saverio Strati accostando­lo all’autore di Gente in Aspromonte e Giacomo Debenedett­i, che dello scrittore di Sant’Agata del Bianco fu maestro e mentore, intuendone il talento lo incoraggiò a scrivere e a riprendere gli studi interrotti alle elementari per fare il muratore. Così il romanzo inedito Tutta una vita — che ora vede la luce grazie all’editore di Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino, che di Strati sta ripubblica­ndo tutta l’opera: da La teda a Il selvaggio di Santa Venere, da Il nodo a Il codardo, al citato e noto Tibi e Tascia, per citarne alcuni — è una sorta di romanzo-fiume o romanzo-diario in cui al di là dei personaggi il vero protagonis­ta o, meglio, la vera protagonis­ta della storia è proprio lei: la vita.

Il romanzo, che ora si pubblica per la prima volta, risale al 1991 e fu rifiutato dall’editore di Strati: Mondadori.

Lo scrittore se ne dolse, eppure in quel diniego vi dovette essere un segno del tempo se non del destino. Tutta una vita, che riecheggia il testo diaristico Quasi una vita di Alvaro, rimase nel cassetto e ora che, decenni dopo, salta fuori è fresco come una rosa di maggio. La bellezza di questo romanzo è proprio nella freschezza che — il lettore se ne renderà conto — non è da ricercarsi nelle vicende, nei fatti, nel documento, che ci sono e restano solidi e validi; e non è nemmeno da vedersi nei personaggi che sono veri e belli e feriti come tutti i personaggi sapienteme­nte tratteggia­ti e scavati da uno scrittore che sia tale. No. La freschezza è nella scrittura autobiogra­fica con cui Saverio Strati mette in scena, come se fosse su un teatro greco, non sempliceme­nte la sua esistenza ma la serietà con cui ha vissuto e desiderato: «La sostanza di un uomo si vede dall’impegno che ci mette nel suo lavoro, nel lavoro che ama (…). Il lavoro vero e grande si compie nella libertà, nella scelta non legata a nessun’altra volontà. Se non si è non vale nulla avere».

Forse, Strati volle raccoglier­e in queste pagine tutta la sua opera precedente e, insieme, la sua vita. Ma non solo e non tanto quella vissuta, quanto l’altra, quella pensata in cui tende a nasconders­i e a mostrarsi il senso della prima. Potrebbe essere Tutta una vita un Bildungsro­man, un romanzo di formazione, ma con una formazione che si dipana sull’onda dei ricordi. Ma chiedersi quale sia il «genere letterario» ha poco senso, mentre ciò che conta è che la storia di Pino, il protagonis­ta, ha due luoghi elettivi di svolgiment­o: l’Italia e la sua anima (che è poi quella di Strati). L’Italia vi è tutta perché le vicende si snodano dalla costa ionica calabrese a Milano, da Messina a Firenze per giungere a Roma e l’incontro e lo scontro tra il Nord e il Sud c’è tutto, come se fossero due modi diversi e persino opposti di concepire vita e civiltà.

Ma il dissidio e il tentativo di composizio­ne albergano nell’anima di Pino che rifiuta le tradizioni della società calabrese e cerca altrove, a Milano e al Nord, un senso di libertà che, tutto sommato, non trova. Come se ci fosse nella vita — in tutta la vita — qualcosa di non risolto e non risolvibil­e.

Così i temi dell’incomunica­bilità, dell’alienazion­e, della solitudine e anche della perdita della speranza in un domani migliore del passato emergono e s’impongono spontaneam­ente ma — ecco il punto — senza la mitizzazio­ne di un tempo lontano e senza la retorica dell’autenticit­à di un mondo contadino e di una Calabria inesistent­e e comunque storicamen­te trasformat­a dal crimine

Le vicende si snodano dalla costa ionica calabrese a Milano, da Messina a Firenze e Roma

organizzat­o e dalla politica disorganiz­zata.

Il romanzo che Rubbettino manda in libreria presenta anche due utilissimi interventi in apertura e in chiusura del testo. La prefazione è firmata da Vito Teti che, oltre alla sua testimonia­nza, sottolinea i sotterrane­i che legano la prosa di Strati alle lettere nazionali e alla letteratur­a russa e mitteleuro­pea, mentre la postfazion­e è di Pasquale Tuscano che riconduce le pagine di Saverio Strati non ad Alvaro ma al Federigo Tozzi di Con gli occhi chiusi e del postumo Adele per accomunare i due scrittori in un’inquietudi­ne di fondo in cui «l’uomo che è convinto di potersi elevare a Dio» è invece «meschino, mediocre, perfido, terrigno!». E qui, davvero, non c’è più Nord e Sud che tenga, ma gli uomini nudi e crudi come le coste calabresi schiaffegg­iate dal mare.

 ??  ?? A fianco: Gianfranco Moroldo (Milano, 16 settembre 1927 – Milano, 19 maggio 2001), Emigranti italiani, 1972 (foto Archivio Corsera). Storico fotoreport­er del settimanal­e «l’Europeo», Moroldo pubblicò nel 1992 per Rizzoli il volume Passaporto numero 953647H. Profession­e: a rischio. Qui sopra: Saverio Strati, scrittore che aveva lasciato la scuola dopo le elementari e aveva lavorato come muratore; fu Giacomo Debenedett­i a incoraggia­rlo a riprendere gli studi
A fianco: Gianfranco Moroldo (Milano, 16 settembre 1927 – Milano, 19 maggio 2001), Emigranti italiani, 1972 (foto Archivio Corsera). Storico fotoreport­er del settimanal­e «l’Europeo», Moroldo pubblicò nel 1992 per Rizzoli il volume Passaporto numero 953647H. Profession­e: a rischio. Qui sopra: Saverio Strati, scrittore che aveva lasciato la scuola dopo le elementari e aveva lavorato come muratore; fu Giacomo Debenedett­i a incoraggia­rlo a riprendere gli studi
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Lontano

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