L’UNIVERSITÀ IN PRESENZA È UN CAMMINO
Da pochi giorni, finalmente, le università hanno riaperto le attività in presenza. Gli esami sono i primi test dell’inizio di un nuovo anno accademico che dovrebbe ripristinare negli atenei una «normalità» perduta. Troppo presto per azzardare bilanci e previsioni. Ma è possibile percepire qualche segnale su cui mi pare utile riflettere.
Dopo due anni di didattica a distanza, gli studenti iscritti durante la pandemia hanno assorbito (non per loro colpa) un modello di università «on demand» che potrebbe produrre pericolosi fraintendimenti. La registrazione della lezione, per esempio, ha creato l’illusione che i corsi potessero essere seguiti, come accade con una qualsiasi serie televisiva, comodamente sdraiati nel proprio letto, a qualsiasi ora e senza alcuno sforzo. Si è perduta, in questo lunghissimo tunnel dell’epidemia, l’idea che l’esperienza universitaria richieda soprattutto una postura: svegliarsi, raggiungere le aule, conquistare un buon posto, ascoltare la lezione in quell’ora precisa. Un umile esercizio quotidiano per allenarsi alla vita e alle necessarie responsabilità ad essa collegate. Lo stesso discorso vale per gli esami che, alcune matricole, avrebbero voluto sostenere in giorni diversi dagli appelli.
Ma c’è di più: chi si è abituato ad avvalersi di occulti sistemi fraudolenti per truccare la valutazione (dal suggeritore al doppio schermo manovrato da complici), ora si agita per conservare l’opzione online. Vedere lo studente smarrito di fronte alla domanda e, pochi secondi dopo, rispondere con velocità, non è stata una prova edificante! Ritornare alla «normalità», significa soprattutto recuperare una postura perduta. Far capire agli studenti che non è il pezzo di carta l’obiettivo. Ma l’esperienza del viaggio che si compie assieme, con onestà, all’interno della comunità universitaria. Solo il camminare, come ricorda Antonio Machado, può renderci migliori: «Viandante non c’è via,/ la via si fa con l’andare».