Corriere della Sera

Schioppi e voti, la caccia nelle urne

- di Gian Antonio Stella

Voti e schioppi, schioppi e voti. Quanto peseranno, sulla vita e la morte della fauna italiana, le amministra­tive in arrivo fra meno di un mese? Molto. Basti dire che le lobby delle doppiette, votando di qua o di là in certe regioni come la Calabria, possono eleggere un governator­e o farne precipitar­e un altro nell’inferno dei trombati. Loro, i politici, lo sanno bene. E tutto o quasi sarebbero disposti a fare pur di non dispiacere a una categoria così generosa o tirchia a seconda dell’accordo elettorale. Prendete la Sicilia: il Tar boccia la preapertur­a della caccia? Il tempo di buttar via le regole appena bocciate e, oplà, ecco che la Regione scodella quelle nuove. E se il Tar insistesse bocciando anche queste? Hiiiih! E che problema c’è? Un po’ di giorni di anarchia e già il periodo buono per fare strage degli uccelli migratori sarà passato e ciao! Se ne riparla l’anno prossimo. E poi quello dopo ancora. Come succede, di deroga in deroga sull’apertura della stagione venatoria, dal 1992. Ventinove anni di deroghe.

«Non sono mai stato cacciatore o meglio lo sono stato una sola volta e quella volta è stata la prima e l’ultima», raccontò nel 1966 Alberto Moravia sul Corriere, «Ero bambino; un giorno, non so come, mi sono ritrovato insieme con mio padre che teneva in mano un fucile, dietro un cespuglio, in atto di osservare un uccello posato su un ramo, a non tanta distanza. Era un uccello grosso e grigio o forse era marrone; con un becco lungo o forse era corto: non ricordo. Ricordo soltanto ciò che provavo in quel momento, mentre lo guardavo: come di spiare un animale la cui vitalità fosse resa più intensa proprio dal fatto che lo spiavo e che l’animale non sapeva che io lo spiavo. (…) Poi, ad un tratto, c’è stata un’esplosione, non ho più visto l’uccello, ho pensato che fosse volato via. Ma mio padre mi precedeva, camminando innanzi attraverso i cespugli della macchia. Finalmente si è chinato, ha raccolto qualche cosa, me l’ha messo in mano. Ho sentito un che di tiepido e di morbido, ho abbassato gli occhi: l’uccello era lì, nella mia palma, con la testa penzolante e sfracellat­a incappucci­ata di una cresta di sangue rosso già rappreso. Allora sono scoppiato in pianto e ho lasciato cadere a terra il cadavere; e questa è stata la fine della mia esperienza venatoria».

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