Il patriarca Scarpetta
Martone: l’autore di teatro era spinto dalla fame di rivalsa E affronto il tema della paternità negata caro a Eduardo
«Non sei contento che ogni giorno ricevi un pranzo da principe?», domanda Luisa al piccolo Eduardo De Filippo in Qui rido io in gara alla Mostra. È il film su Eduardo Scarpetta di Mario Martone, con Toni Servillo al suo meglio. Scarpetta ha avuto figli dalla moglie Rosa, dalla sorellastra della moglie e dalla nipote Luisa De Filippo, figlia di una modesta coppia di commercianti di carbone. Donne atipiche, avevano qualcosa di virile che scompigliava il conformismo, si rispettavano ed erano guardinghe, rivali, conoscevano «il dolore e l’orgoglio».
Scarpetta era il re del botteghino nella Napoli teatrale di primo ’900; la gente si toglieva il cappello quando passava lui. «Ho ucciso Pulcinella», diceva. Eduardo era uno dei tre figli illegittimi, con Titina e Peppino, che Scarpetta ebbe da Luisa, sartina della compagnia di Scarpetta. Eduardo già da piccolo aveva quel sopracciglio arcuato e sornione che era già una piéce di teatro, dove ritrovi crepe, contraddizione e sberleffi del Sud.
Chi era Scarpetta?
«Un patriarca amorale spinto dalla fame di riscatto e di rivalsa, una figura e un’energia primordiali, quasi mitologica. Lo dice bene Toni, fa il suo mestiere celebrando la vita, dove coincidono nascite e debutti, entusiasmi e depressioni per i fischi, invidie e ammirazione. C’è un mistero in lui che andava affrontato».
Martone, si vedono D’Annunzio e Benedetto Croce.
«Croce difese Scarpetta nella storica causa sul diritto d’autore, dopo la parodia (scatenò un putiferio) su La figlia di Iorio, di D’Annunzio, che trascinò in tribunale Scarpetta. Non gli bastavano più ricchezza e fama, cercò la sfida con il poeta più grande. La tesi di Croce era, non è plagio, solo una brutta commedia: non è reato. La difesa segnò una incrinatura in Scarpetta. Sfidò il destino in aula con un numero da primattore, la sua ultima grande recita».
Eduardo chiamava «zio» suo padre. Gli diede cibo, un tetto, l’amore per il teatro. E il nome, ma non il cognome.
«Per tutta la vita Eduardo non volle mai parlare di Scarpetta come padre. Poco prima di morire il suo amico scrittore Luigi Compagnone gli chiese, ci siamo fatti vecchi, è il momento di parlarne, Scarpetta era un padre severo o un padre cattivo? La risposta fu: era un grande attore».
Quarto film consecutivo in gara a Venezia, torna al tema della paternità negata.
«Che è al centro del teatro di Eduardo De Filippo. Pensate a come dovesse sentirsi quando scrisse Filumena Marturano, i tre figli che andavano riconosciuti. Suo fratello Peppino fu abbandonato con la balia in campagna nei suoi primi cinque anni. Detestò suo padre Scarpetta».
La sua prima volta qui?
«Da ragazzo come spettatore. Non avevo un soldo e dovevo scegliere tra i film o la cena. Risolvevo con i ghiaccioli».
Lei e Toni Servillo.
«Beh, ci siamo conosciuti che avevo 17 anni, avevamo compagnie teatrali cugine e rivali. Aveva “’na capa” di capelli così, e faceva uno spettacolo rock con un uso ritmico del corpo, qualcosa di inimmaginabile. Andammo a vedere insieme in periferia ‘O scarfalietto di Scarpetta. Nel mio esordio, Morte di un matematico napoletano, venimmo qui. Abbiamo cominciato insieme, quarant’anni fa».
Porta il teatro al cinema.
«L’ho pensato come un testo teatrale. Qui c’è l’immaginario romanzo di Scarpetta e della sua tribù».