Avati si racconta a un gruppo di studenti
L’idea è venuta a Gianni Canova, rettore dello Iulm. Far incontrare, sul grande schermo, un gruppo di studenti e aspiranti filmmaker dello Iulm Movie Lab con uno dei maestri del cinema italiano, Pupi Avati che la gioventù l’ha raccontata, sezionata e evocata spesso nel corso di una carriera lunga mezzo secolo e quaranta film. Il risultato è il documentario Vorrei sparire senza morire, presentato ieri alle Giornate degli autori, in collaborazione con Isola Edipo.
Un ritratto insolito, narrato in prima persona dal regista, una lunga confessione sincera e senza troppi filtri. Il racconto parte dal piccolo cimitero di San Leo, luogo di sepolture di molte delle persone che ha amato. Un percorso che da Bologna, tocca il castello di Rocchetta Mattei, gli uffici romani della DueA, gli studi di Cinecittà.
Una vita fatta di cinema, prima di tutto. Che, ammette Avati, «mi ha dato moltissime gioie, ma anche tantissime sofferenze. Molte mattine andare sul set rappresenta la cosa che meno vorrei fare al mondo. E mi chiedo: ma perché io mi sto costringendo a questa scelta di vita che mi espone continuamente a questa ricerca di felicità? Perché non siamo mai definitivamente cresciuti?». E anche di molta musica, filo conduttore della vita Avati, già clarinettista della Doctor Dixie Jazz Band, passione mai tradita.
Ma, soprattutto, Vorrei sparire senza morire è la parabola di un’esistenza che non prescinde mai dal contesto generale. E risultato di un lavoro collettivo. Dei giovani autori (Hilary Tiscione, Nicola Baraglia e Marta Erika Antonioli, Emanuele Misurina) con lo stesso Pupi e il fratello Antonio Avati. «La regia, ammesso che ci sia, è il frutto delle discussioni appassionate di costoro, e di tutti gli altri che appaiono nei titoli di coda e che hanno contribuito a vario titolo, tutti insieme appassionatamente, al risultato finale».