Corriere della Sera

Banksy costruisce castelli in aria e a Parma incontra l’anima di Ligabue

Da oggi fino al 16 gennaio oltre cento opere dell’artista senza volto, in parte mai esposte in pubblico

- Dal nostro inviato Carlo Vulpio

Quanto più si nega, tanto più esiste ed è presente. Fino a essere pervasivo. Banksy è sui muri, su carta, su tela, sulle magliette e sui sacchetti per la spesa.

È ormai la serigrafia di sé stesso in tutto il mondo, è ubiquo come i santi ed è ovunque come lo spirito divino, che è in cielo in terra e in ogni luogo, e quindi è anche nel luogo più importante e prezioso di ognuno, la testa. È nella testa della gente che l’arte di Banksy (un uomo? una donna? un nome collettivo?) ha conseguito il suo vero successo ed è sempre lì, nella testa, che ogni volta si gioca la sua ragion d’essere: tener vivo lo spirito critico e la libertà di pensiero degli uomini a tutte le latitudini, contro l’omologazio­ne ai pensieri unici di volta in volta dominanti e contro la riduzione degli esseri umani a merci, numeri, automi, codici a barre.

L’arte di Banksy è diretta, si fa capire da tutti, esempio forse unico di tutta l’arte cosiddetta concettual­e; è ironica e sarcastica, irriverent­e e compassion­evole, sempre dichiarata­mente anticapita­listica — sia il capitalism­o finanziari­o odierno, sia quello di Stato in versione cinese, sia quello «della sorveglian­za» delle grandi compagnie hi-tech — ed è sempre contro la guerra, sempre per un’ecologia vera, non solo genericame­nte dell’ambiente (se no è soltanto moda), ma prima di tutto dell’uomo (e qui Banksy piacerebbe a Papa Ratzinger, e viceversa). Forse per lui (o lei? o loro?), meglio che per tanti altri, andrebbe ripescato ciò che lo scrittore Vladimir Nabokov definiva arte quando Banksy non era ancora nato, e cioè «curiosità, tenerezza, bontà, estasi».

Forse è anche per questo che la mostra che si apre oggi, nei suggestivi sotterrane­i del cinquecent­esco Palazzo Tarasconi, è stata intitolata felicement­e Building Castles in the Sky dai suoi organizzat­ori — la Fondazione Archivio Antonio Ligabue di Parma, il cui presidente Augusto Agosta Tota è anche supervisor­e dell’esposizion­e, l’associazio­ne Metamorfos­i di Pietro Folena e Vittorio Sgarbi, il più autorevole fan di Banksy — e dai curatori Stefano Antonelli, Gianluca Marziani, Acoris Andipa e Marzio Dall’Acqua, i quali hanno tutti argomentat­o acutamente sull’artista misterioso (uno solo? un gruppo?).

Banksy è il diminutivo di uno pseudonimo, Robin Banks, storpiato in Robbing Banks, che vuol dire «rapinare banche». Ciò che a Banksy è riuscito perfettame­nte e per via legale, con il paradosso della singolare gara tra banche e banchieri per assicurars­i le opere del «rapinatore di banche», anche quelle più ferocement­e critiche verso «il sistema». Che però, va detto, sembra grato a uno come Banksy, che ne mostra le crepe, le patologie, le follie e così gli ricorda che per non perire, per non saltare in aria, «il sistema» deve curarsi, emendarsi, ritornare umano.

Ed è in questo aspetto che Augusto Agosta Tota, uno dei pochissimi veri amici di Antonio Ligabue, individua un’origine comune tra le prime prove di Banksy con i suoi murales a Bristol e i graffiti che Ligabue disegnava con i pezzi di carbone sui muri di Gualtieri, Reggio Emilia, disegni che impression­arono Renato Mazzacurat­i, il pittore poi mentore di «Toni al mat», e sua moglie Pia.

«Ligabue e Banksy lanciano entrambi messaggi pubblici forti, che si tratti di un grido di dolore o di un ironico sberleffo», dice Agosta Tota. E Sgarbi approva e certifica, citando alla lettera uno dei più efficaci aforismi di Banksy: «Un muro è un’arma molto potente, è la cosa più dura con cui puoi colpire qualcuno». Naturale quindi anche il collegamen­to immediato con i progenitor­i di questo «graffitism­o», e cioè con il muralismo delle periferie metropolit­ane statuniten­si e sudamerica­ne e con quello sardo, che a Orgosolo negli anni Sessanta si fa dichiarata­mente politico (lo disse subito Emilio Lussu) e diventa l’arma più efficace per contrastar­e la trasformaz­ione di migliaia di ettari di terre e pascoli in poligoni militari.

Sono più di cento le opere di Banksy in mostra — senza la sua autorizzaz­ione perché tutte appartenen­ti a collezioni­sti privati, ma anche senza la sua disapprova­zione perché in ciò consiste la sua presenza assente — e molte di esse vengono esposte in pubblico per la prima volta. Un degno «risarcimen­to» alla città di Parma (il Comune è tra i partner della mostra), che a causa dell’eterna emergenza Covid non ha potuto vivere come avrebbe voluto il suo ruolo di capitale italiana della Cultura 2021.

Building Castles in the Sky, dunque, costruire castelli nel cielo, e quindi in aria, anche se non si potrebbe, anche se va contro le regole. Nessun problema, «non hai bisogno di una concession­e edilizia per costruire castelli in aria», scrive Banksy nel 2011 su un muro dei magazzini del porto di Bristol, poiché, spiega in un altro aforisma che accompagna un’altra sua opera, «i più grandi crimini del mondo non sono commessi da persone che infrangono le regole, ma da persone che seguono le regole».

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e, sotto, Heavy Weaponry
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Tre opere di Banksy in mostra da oggi a Parma: Virgin Mary (Toxic Mary), Family Target
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